Quando un artista, che hai tanto amato e seguito, viene a mancare si crea un senso di partecipazione emotiva che spesso si traduce in una temporanea negazione dell’ascolto delle sue opere.

è quello che mi è successo per David Bowie, per diverso tempo dopo la sua morte ho fatto una certa fatica ad ascoltare suoi pezzi , e la stessa cosa mi è accaduta anche per Leonard Cohen.

La spiegazione che mi sono dato è abbastanza semplice, una forma di elaborazione del lutto e consapevolezza della perdita del loro futuro artistico, il rifiuto temporaneo come una specie di negazione dell’evento.

Questo momento di sospensione nel mio caso è stato superato tramite la realizzazione della top ten per Indie For Bunnies, che ora mi permette di affrontare con piacere questo nuovo album di Leonard Cohen, perchè di nuovo si tratta e non di registrazioni live o B Side come si potrebbe pensare.

Grazie all’opera di Adam Cohen, che ha recuperato e musicato alcune opere del padre a volte solo abbozzate, e alla collaborazione di artisti del calibro di Damien Rice  e Leslie Feist che hanno cantato, Richard Reed Parry degli  Arcade Fire  che ha suonato il basso, Bryce Dessner  dei  The National   alla chitarra, il compositore Dustin O’Halloran al piano, il coro berlinese Cantus Domus, Daniel Lanois, che ha arricchito gli arrangiamenti, il coro Shaar Hashomayim, e infine  Patrick Watson, che ha co-prodotto un brano,ci troviamo finalmente tra le mani questo regalo totalmente inaspettato.

L’album si muove, da un punto di vista musicale e concettuale, nello stesso ambito che avevamo apprezzato negli ultimi suoi lavori, con la sua voce profonda che recita le sue poesie, abbozzando a volte una melodia.

Non è un album commemorativo quindi, ma un lavoro che esalta e testimonia ancora una volta la sua grandezza, e nel quale per quanto sia la malinconia a governare, ci sono momenti in cui un ricordo accende fuochi, come accade in   “The Night of Santiago” dove domina la passione.

Tutto è avvolgente ed ipnotico, la title track ” Thanks for Dance” non è solo un piccolo capolavoro, ma anche una specie di intimo saluto, dove la metafora della danza esprime la bellezza di aver vissuto.

Se David Bowie in “Blackstar” aveva costruito un percorso intimo ma allo stesso tempo oscuro, quasi una sfida alla morte nell’illusione di vincerla  affrontandola faccia a faccia, in questo lavoro di Cohen c’è un senso di pace, che trasforma l’inquietudine in una filosofica accettazione.

Come in tutte le sue opere la protagonista è la sua penna e le sue poesie andrebbero analizzate attentamente una alla volta.

Resisto alla voglia di affrontare un track by track e mi limito solo a citare alcune tra le mie preferite, tra cui “Puppets”, che esprime un pessimismo lirico nel quale l’umanità  altro non è che un insieme di pupazzi e marionette, “Happens to the Heart ” con un testo bellissimo e commovente che racconta di chi, artista o non artista, è costantemente alla ricerca di un significato, un testo in cui può capitare di riconoscersi, “… I’ve got my shit together, meeting Christ and reading Marx”.

L’album chiude con “Listen to the Hummingbird” , una piccola grande preghiera nel quale la speranza viene cercata in ciò che non si può capire e vedere e la pace attraverso la negazione del proprio pensiero, per quella che sarà  per sempre la sua ultima poesia.

Cohen ci lascia con un piccolo gioiello, l’ultimo di un artista che ha fatto la storia è che sarà  per sempre il punto di riferimento per ogni vero artista.

Credit Foto: Takahiro Kyono [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons