Quando l’ho ascoltato per la prima volta, quasi un anno fa, è stato subito amore. Poi ho cominciato a maledirmi per averlo scoperto pochissimo tempo dopo il suo primo live a Milano. Ma finalmente, qualche giorno fa, ho avuto il mio riscatto.

Il 9 dicembre Tamino si è esibito in Santeria Toscana 31, dove ha raggiunto un clamoroso sold-out che rende palese quanto l’effetto che ha avuto su di me non sia affatto un caso isolato. La fila per accaparrarsi i posti sotto il palco ha cominciato a formarsi ore prima dell’apertura delle porte; ci sono fan da tutte le parti dell’Italia, anche dell’Europa, e tra loro c’è chi continuerà  a seguirlo nelle altre tappe del suo tour.

In realtà  non sono poi tanto stupita di tutto ciò. Tamino è magnetico, ti cattura emotivamente e in “Amir”, il suo primo ed unico LP, è riuscito a concentrare brani estremamente personali e profondi, di quelle tracce che ti sconvolgono quando meno te l’aspetti.

Ad aprire le sue due tappe italiane del tour c’è Marianne Mirage (all’anagrafe Giovanna Gardelli), cantautrice italiana che ha coinvolto tutti con i suoi brani più famosi, cantati sia italiano che in francese. Marianne parla spesso di amori finiti con una voce dolce ma forte allo stesso tempo, quel giusto contrasto che riesce a raccontare in modo efficace certe sensazioni, spesso inevitabilmente malinconiche.

Puntualissimo, alle 21:30, Tamino sale sul palco. Dietro di sè pochissima luce, è in penombra, e accenna i primi accordi di “Intervals”, che il pubblico riconosce immediatamente. L’approccio con la sua voce lascia la pelle d’oca, personalmente sono rimasta a fissarlo incredula per un po’ prima di riconnettermi con il resto dell’umanità . Tra l’altro è solo, eppure riesce a riempire ogni spazio fisico attorno a sè come se fossero lì in mille. E invece no, bastano lui, la sua chitarra e la sua voce. Poi non lo so, saranno state le luci, ma a me pareva quasi avere un’aura tutta attorno, un’immagine tremendamente poetica.
Dopo “Persephone”, “Reverse” e “Cigar” imbraccia la sua chitarra resofonica che suonerà  sia in “Each Time” che in “w.o.t.h.”, due tra i suoi pezzi più arabeggianti.
Ad un certo punto, probabilmente dopo essersi sciolto un po’, entra in contatto con il pubblico e accenna qualche parola in italiano, un “buonasera” e un “grazie mille” che bastano per far impazzire la folla. Qualcuno gli chiede come mai la sua band non fosse lì con lui, “è una storia poco interessante” dice “gli altri (compreso Colin Greenwood, bassista dei Radiohead ndr) non sono quì per problemi logistici, ma volevo assolutamente venire in Italia prima di prendermi una pausa”, frase che scatena una reazione di tenerezza generale.

è la volta di “Verses”, “Crocodile”, tratto dalla recente versione Deluxe del suo album, “Chambers” e “Tummy”. Durante tutto il concerto avverto un’atmosfera davvero particolare. C’e uno strano religioso silenzio e la voce di Tamino riecheggia nell’aria, quasi come se ognuno dei presenti avesse paura di emettere anche solo un respiro e rovinare il momento. “Indigo Night”, però, è un’eccezione. Tutti cominciano a cantare assieme a lui e ad un certo punto, durante i suoi vocalizzi, lascia che sia il pubblico a continuare, sorridendo quasi incredulo e grato.
La struggente canzone d’amore “Habibi”, che è probabilmente anche quella grazie alla quale la maggior parte dei presenti hanno conosciuto Tamino, segna la sua prima uscita di scena.
Torna sul palco per un breve encore di due brani; la nuovissima e delicata “Every Pore”, e “My kind of woman”, cover di Mac DeMarco che è riuscito a personalizzare così tanto da farla sembrare sua da sempre.

Le luci si riaccendono, mi guardo attorno e riesco a riconoscermi nelle espressioni facciali di chi mi circonda. Piacevolmente stordite, quasi incredule. Perchè sì, eri lì consapevole di amarlo, ma non potevi immaginare quanto Tamino potesse riuscire a scomporti e rimettere insieme i tuoi pezzi, nello stesso momento.