La madre di Thomas e Alex White è morta nel 2009. Questo è un disco che parla di lei. Di lei e del suo “spegnersi” ma anche di come, chi le sta attorno, vive (e ha vissuto) questo dolore,   la scomparsa di un genitore ed elabora la cosa. Una vera e propria opera necessaria, per il suo autore (è Alex il principale autore), di passaggio e di catarsi. Non è un disco facile nei contenuti questo “Stages”, perchè cercare di “spiegare” un lutto non è un gioco da ragazzi, ma nemmeno creare quella doverosa empatia con l’ascoltatore può essere immediato. Ecco perchè lo stesso Alex ha più volte voluto abbandonare il progetto, perchè non credeva proprio di essere capito, non riusciva a concepire come qualcuno avrebbe potuto accostarsi a un lavoro così personale e “viverlo in pieno“. La volontà  ferrea di Thomas ha fatto si che avessimo comunque tra le mani il quinto lavoro dei favolosi Electric Soft Parade (band che ricordiamo fu osannata nel 2002 con l’album d’esordio “Holes In The Wall”).

Quando leggo che la band ammette di aver fatto il disco “della vita” ci credo. Non è solo la frase di circostanza che ogni artista dice ad ogni sua nuova uscita, no, questo è proprio il disco della “loro” vita. Quella che ha preceduto e seguito il triste evento. “Stages” è un disco che riporta dolori e amarezze e, al contrario di quanto credeva Alex, è capace di trasmetterceli in modo magnificamente intenso. Le canzoni non hanno un minutaggio così elevato per annoiarci o per tediarci, ma proprio per farci entrare in quel mondo di tristezza e amarezza che, nella vita reale, non dura certo un attimo, ma si espande nel tempo. Così accade anche in questo lavoro: le canzoni sono lunghe perchè riflettono quello stato d’animo di “rottura prolungata” e anche noi ascoltatori possiamo comprendere in pieno la situazione, entrando nella parte più intima dell’autore, che sta vivendo un lungo dolore e non ne vede la fine. Ambiziosa come cosa, certo, ma portata più che egregiamente a termine, grazie anche al magistrale lavoro in termini di songwriting e arrangiamento, che rendono i brani ariosi e maestosi, proprio a livello sonoro ed espressivo: suoni che accentuano ed amplificano la profondità , la sincerità , il coraggio e la vulnerabilità  del disco. Certo, l’ideale andrà  probabilmente a discapito di una programmazione radiofonica classica, ma questo pare essere l’ultimo dei problemi di Al e Thomas che, anzi, non intendono inserire l’album su Spotify (tra l’altro sarà  publicato solo in 500 copie CD e 250 vinile, proprio per rimarcare l’intimità  della pubblicazione), non ritenendolo affatto il luogo ideale per un simile disco.

Leggendo le mie parole forse vi sarete immaginati un disco cupo, lugubre, pesante, ma in realtà  i bagliori emozionali e il trasporto melodico delle canzoni della band sono semplicemente innegabili e tutt’altro che opprimenti. Dalla morbida eleganza quasi anni ’70 di “Saturday”, allo struggimento di “Never Mind” guidata da quel piano e l’ingresso toccante degli archi, passando per il taglio quasi da ballatona ‘made in Teenage Fanclub‘ di “Left Behind” con la chitarra in evidenza fin da subito a delineare il giro melodico. I 12 minuti di “On Your Own” sono sublimi a dire poco, con un giro circolare che sempre più viene arricchito e ampliato, come una specie di “Bolero” dell’indie-pop. “Fragments” è così fragile e cristallina che pare uscire da una collaborazione da brivido fra il primo Chris Martin e Richard Hawley, pelle d’oca.

Gennaio ha già  il suo disco del mese. Eccolo.