di And Back Crash
Prosegue la mutazione del progetto di Jack Tatum, che con questo grazioso EP si concede un’ulteriore digressione nel romanticismo anni ’80, portando a compimento una parabola che dalle premesse indie sfumate di post-punk di “Gemini” (e dal fors’anche superiore EP “Golden Haze”) ha condotto, via le tappe intermedie di “Nocturne” e “Life of Pause”, al sofisticato pop di “Indigo”. L’ultima idea artistica di Tatum, lasciare una patina lo-fi a brani agghindati con ritornelli orecchiabili ed eleganza rètro, è un’operazione nostalgia che, nell’epoca della “vaporwave”, non regala niente di rivoluzionario (ma forse porta danaro).
La sensazione di trovarsi intorno all’Anno Domini 1984 è immediata al primo ascolto: è fin troppa la spavalderia con cui si raffigurano discepoli dei Duran Duran col cocktail in mano (“Sleight of Hand”) battibeccarsi con omologhi degli Spandau Ballet intrisi di whisky in un fumoso bistrot (“The World is a Hungry Place”). Il singolo, “Foyer”, non è che synthpop del filone più maturo, quello di Thompson Twins e ABC. Se già da “Gemini” si scorgevano in nuce avvisaglie di questa traiettoria, si può azzardare l’operazione inversa e rintracciare le coordinate del delizioso e naà¯f sound degli esordi nel jangle pop di Aztec Camera e Felt (in “Dizziness” e soprattutto “Blue Wings”, forse il brano di punta). I Prefab Sprout queste cose le facevano più di 30 anni fa.
Ciò che salva gli Wild Nothing è il talento melodico di Tatum, uno dei pochi che oggigiorno sa come scrivere e arrangiare canzoni pop di facile presa senza eccedere in dozzinalità . Nell’insieme il divertissement vale il prezzo del biglietto e regala venti piacevoli minuti con cui rilassarsi sorseggiando un buon bicchiere di vino, speculando sulla caducità dei sentimenti sprofondati in un comodo divano.