Un solo singolo, “Creep”, aveva reso i Radiohead celebri, ma allo stesso tempo li aveva incatenati, chiudendoli in una stanza talmente piccola ed opprimente che sarebbe stato impossibile evolversi, artisticamente ed umanamente, nonchè comprendere dove potesse andare a finire la loro musica e la loro voglia di sperimentare, una volta che si fossero liberati dalle vesti troppo succinte dell’indie-rock e del britpop.

Fu una situazione davvero complicata per una band così giovane, sarebbero potuti sparire per sempre, sprofondare attaccati a quel pesante macigno che stava diventando quella sola, seppur fantastica, canzone. Ed invece, sin dall’inizio, sin da “Planet Telex”,   i Radiohead ““ forse anche in maniera inconsapevole, ingenua ed impertinente ““ stavano piantando i semi che li avrebbero portarti, da lì a poco, a perdersi nei loop elettronici; a sciogliersi in albe d’archi e tramonti di synth; a dipingere panorami sonori sempre più astratti e minimali. Quel manichino ritratto in copertina, i suoi colori artificiali, scoperti quasi per caso, la sua posa distaccata ed indifferente sono uno sguardo aperto sul futuro, più che sul passato: sull’inquietante e distopico mondo di “OK Computer”, più che sul calore rassicurante del recente “Pablo Honey”.

“The Bends” è un album fatto di frammenti, gli stessi frammenti che la band tenta di mettere assieme per comprende ciò che ha attorno; per capire quella che è la verità  e quella che è la falsità  degli uomini di gomma, di quegli uomini di polistirolo incrinato che si consumano sempre più velocemente; per sottrarre i suoi pensieri alla macchina che vorrebbe intubarci e somministrarci la sua versione prefabbricata della vita, ma l’unica cosa che può farci sentire davvero è solo il tocco gelido della fine: “I can feel death, can see its beady eyes“.

La leggenda vuole che la casa discografica avesse posto il suo drammatico ultimatum e che la band, ormai lontana anni luce dalla Terra, su un pianeta tutto suo, registrasse l’album in una sola notte: il suono che ne viene fuori risente ancora di un background post-grunge e college rock, ma è molto meno impulsivo e gioviale, più consapevole dello stallo emotivo causato da quelle aspettative nocive ed apre alla band, quasi a volersi affrancare dall’insopportabile stretta mediatica, quel mondo di percezioni sensoriali, di riflessioni silenziose, di arrangiamenti innovativi, di passaggi minacciosi alternati a momenti di ansia, debolezza e claustrofobia, che avrebbero reso i Radiohead frenetici nella loro voglia di scoprire cose nuove, di muoversi in territori prima inesplorati, di trovare la propria coerenza non nella staticità , ma nel dinamismo, senza aver paura di rinunciare a qualcosa di caro e collaudato, ma consci di poter espandere le proprie conoscenze altrove, su pianeti che nessuno ha mai visitato.

Pubblicazione: 13 marzo 1995
Durata: 48:39
Dischi: 1
Tracce: 12
Genere: Alternative rock
Etichetta: Parlophone
Produttore: John Leckie, Nigel Goldrich
Registrazione: 1994-1995

1.Planet Telex ““ 4:19
2.The Bends ““ 4:04
3.High & Dry ““ 4:20
4.Fake Plastic Trees ““ 4:51
5.Bones ““ 3:08
6.(Nice Dreams) ““ 3:54
7.Just ““ 3:54
8.My Iron Lung ““ 4:37
9.Bullet Proof I Wish I Was ““ 3:29
10.Black Star ““ 4:07
11.Sulk ““ 3:43
12.Street Spirit (Fade Out) ““ 4:12