Era da un po’ che seguivo le vicende legate all’uscita del disco di Marco Giudici, mano che si nasconde tra le pieghe musicali di diversi nomi del panorama indipendente e ora sulla rampa di lancio con il suo primo disco da solista in italiano “Stupide cose di enorme importanza“, per 42 Records.   Era da un po’ che lo seguivo, e per motivi diversi: in primis, perchè il mio feticismo per la scena emergente mi porta ad aggrapparmi ad ogni possibilità  che il mercato offre (e già  qui si inciampa sul primo utopistico paradosso) di uscire dall’impasse di proposte musicali sempre più digerite; poi, perchè Giudici ha lavorato a progetti che amo, ultimi dei quali Generic Animal e Rares, e aveva insomma già  dimostrato di poter tirare fuori dal cilindro qualcosa di potente agendo da sarto esperto sulle spalle e sulle ambizioni di altri; e poi, perchè intorno a lui si avvertiva già  qualche mese fa, in concomitanza con l’uscita dei primi singoli estratti, un certo di tipo di aura sacrale, di quelle che percepisci quando vede la luce un progetto che evidentemente è atteso da tanti, sopratutto addetti al settore, pronti a far la corsa per segnalarlo e poter un domani arrogarsi la lungimiranza di Colombo nel dire “l’ho scoperta io, l’America!“, anche se Colombo non aveva assolutamente idea di aver scoperto alcunchè, men che meno un continente che, comunque, non esisteva ancora solo per chi viveva dall’altra parte della Terra.

E allora da questa corsa all’oro non potevo sottrarmi nemmeno io, con la curiosità  di chi vuol capire se tutto questo luccichio sia davvero segnale di qualcosa di prezioso o il riflesso di uno specchio in cui è comodo ammirarsi per sentirsi migliori e scoprirsi più soli, ma anche più intelligenti, più cool, più intellettuali di altri.

Si sa che il panorama musicale emergente ci regala da sempre stellette da appendere alla giubba per lustrarci i petto, e gonfiarlo fiero nel mostrare ad amici e conoscenti – che ormai non ci sopportano più – quanto siamo belli e rivoluzionari, e attenti alle nuove linee della musica che verrà ; il risultato, spesso, è quello di trovarci a gridare al miracolo per convincerci di saperci ancora stupire, per poi cambiare fede e chiesa davanti alla venuta del prossimo Profeta che il mercato deciderà  di farci acclamare come tale. Marco Giudici sembra essere un’altra cosa, invece; entra in punta di piedi nelle case di chi vuole ascoltarlo, pare proteggersi da riflettori che su di lui potrebbero accendersi, forse per paura di aver paura di tutto quel meccanismo di distorsione che l’attenzione pubblica comporta sulle anime perse e sincere, votate alle direzioni ostinate e contrarie: il timore che qualcosa di intimamente suo, come per il buon Marco sembra essere questo disco d’esordio, si trasformi in carne per cani. E allora, diventa un obiettivo primario salvaguardare la sopravvivenza di una purezza che no, non è pensata per adeguarsi alle verità  e alle bugie di tutti, ma che piuttosto vuole lasciarsi contemplare da chi ha ancora voglia di conoscere l’altro, senza ridurlo al .

Insomma, Giudici è l’occasione perfetta per esercitare un po’ di umana curiosità  sulla vita di un sopravvissuto, come noi, all’esistenza, ma in modo diverso: Marco non scrive canzoni da hit, non vuole che impariamo i suoi pezzi a memoria per poterli un domani salmodiare, come una setta di radical chic invasati, ai concerti che verranno (si spera, vista la situazione immanente), perchè dentro quelle metriche ardite – spesso ai limiti del ritmo e della musicalità  – c’è la sua, di storia. E allora, di fronte alla raggiunta consapevolezza di una sacrosanta unicità , la scrittura si fa complessa e personale e la melodia diviene una sirena ammaliante che l’ascoltatore non può far altro che seguire, una guida verso l’abisso buio di attimi che non ci appartengono ma di cui finiamo col seguirne la trama attraverso l’ipnotica architettura musicale che si cela dietro il percorso arzigogolato di un disco difficile, e – anche – per questo valido. Ora, dopo aver preso dimestichezza con la mappa invisibile di Giudici, emerge anche tutta l’intelligenza del produttore, che sa distogliere l’attenzione dai punti deboli che il lavoro ha, nel suo ardito – e astuto – sperimentalismo: le pieghe imprevedibili delle tessiture melodiche e musicali rintuzzano le crepe lasciate qua e là  da una penna che sta ancora cercando la sua quadratura, e da una vocalità  spesso ancora troppo referenziale ad un mondo, quello dell’it-pop calcuttiano (non ce ne abbia a male, certe volate ricordano proprio i primissimi passi del cantautore di Latina verso “Mainstream, e il mainstream) che abbiamo il dovere di superare, per non immolare la pretesa di originalità  sull’altare del luogo comune, della comfort zone.

Le bucce di banana su cui il buon Marco può essere scivolato fanno parte del percorso, sopratutto quando la strada non è tracciata e tu, fresco di foglio rosa (per quanto riguarda la scrittura in italiano), hai in mano le chiavi di un trattore pesante e difficile da guidare, sentendo sulle spalle la responsabilità  di essere lì per tracciare un solco che dipenderà  solo dal tuo coraggio, dalla tua inventiva, ma sopratutto dalla tua sfrontatezza. Di quest’ultima, Giudici sembra non mancare, e la patina di tenera gentilezza, figlia della lezione del miglior Truppi, che si stende tra i tappeti neo-soul di piano rhodes da cuori infranti e mood ricercatamente lo-fi, fa incetta di amori fragili e aiuta a superare l’ascolto di un disco pretenzioso, ma a tenuta stagna: parlare traccia per traccia di un’esperienza come “Stupide cose di enorme importanza” mi sembra inutile, quanto riduttivo; il primo ascolto è stato difficile, il secondo anche, forse ho idee più confuse che chiare, e forse per questo mi sono imbarcato nella navigazione a vista di una recensione piena di stupide cose, magari, ma di enorme importanza – almeno per me – da notare.

Ognuno abbia la voglia, se vuole, di calarsi dentro le dieci tappe di una Via Crucis che farà  parlare di sè e, per una volta, di un artista che dà  tutta l’idea di non voler essere Profeta di niente, se non delle proprie croci e di personali resurrezioni; e allora, tutta la mia preghiera e la mia fede è riposta nel buon cuore di chi accetterà  di aver davanti, finalmente, una persona, e non un personaggio da santificare, per poi mandare al macello.