Se c’è una band nell’attuale scena contemporanea cui si può attribuire l’appellativo di “senza tempo”, è senza dubbio quella dei Metz, trio canadese capitanato dal talentuoso e prorompente Alex Edkins (cantante e chitarrista).

Nel loro caso il versante musicale (e poetico-narrativo) trova rifugio nell’immaginario hardcore/grunge, che di album in album stanno riportando all’attenzione generale creando allo stesso tempo i presupposti per essere straordinariamente riconoscibili; quindi non dovete nemmeno sforzarvi troppo nell’andare a ritroso alla ricerca dei nomi giusti: ormai i Metz camminano con le proprie gambe, non guardando in faccia nessuno, brutali e senza scendere ad alcun compromesso.

Ascoltando altri dischi pubblicati nell’ultimo ventennio dalla storica etichetta Sub Pop, era chiara la percezione – poi corroborata dai fatti – che da quelle parti, dopo i fasti degli anni novanta trainati dalla scoperta dei Nirvana, ci fosse la voglia e la necessità  di perlustrare altri territori musicali, accogliendo nel roster tanti artisti interessanti, dallo stile più eterogeneo possibile.

Tuttavia l’impressione è che i capi della label, non appena avuto tra le mani il primo lavoro del gruppo di Ottawa (completato dal solido bassista Chris Slorach e dal possente batterista Hayden Menzies), abbiano colto le stesse identiche good vibrations di almeno trent’anni prima, un sound estremamente familiare.

A quel punto l’approdo dei Nostri alla casa madre del grunge divenne uno sbocco naturale, allo stesso modo in cui la loro musica imperversa in vibrante e spontanea nelle nostre orecchie.

Dal debut album eponimo risalente al 2012 ad oggi sono cinque i capitoli targati Metz licenziati dalla Sub Pop (più un Ep e una strana raccolta alla “Incesticide”, intitolata “Automat” entrambi messi fuori l’anno scorso), segno di un sodalizio che appare inscalfibile, con il gruppo appunto a dare continuità  a una storia forse irripetibile e a farsi portatore di certi valori e stilemi che vanno perpetrati e rinsaldati.

“Atlas Vending” aggiunge poco o nulla alla fortunata formula a base di chitarre affilate e taglienti come lame e a una sezione ritmica serratissima, la quale ben dosata crea di volta in volta l’atmosfera giusta, rendendo ad esempio assai sinistro e minaccioso l’umore dell’iniziale “Pulse”, biglietto da visita che porta in dote il marchio indelebile dei Melvins.

La successiva “Blind Youth Industrial Park” accelera invece grandiosamente i toni e, forte di un ritornello insolitamente volto all’apertura melodica, potrebbe candidarsi a singolo perfetto, nell’ottica ovviamente di un gruppo che non fa certo delle instant songs la sua principale peculiarità .

Anche “The Mirror”, che la segue in scaletta, tiene alta l’asticella dell’intensità , tra Nirvana (quelli di “Bleach”) e Fugazi, mentre altrove si scorgono ancora momenti magari fulminei in cui il trio tenta sortite un minimo orecchiabili, come nella velocissima “No Ceiling”, brano sui generis nel contesto di un intero percorso, tutto racchiuso com’è in poco più di un minuto e mezzo lancinante.

E’ indubbio però che, divagazioni a parte, siano ancora la rabbia, il noise più acceso e l’inquietudine a rappresentare appieno il disco, dai ritmi opprimenti di “Draw Us In” alla cavalcata elettrica di “Sugar Pill”, fino alle distorsioni industriali di “Parasite”, dove la violenza sonora tocca il proprio apice.

C’è tempo in extremis per tirare un po’ il fiato nella splendida “A Boat to Drown In”, sempre adrenalinica e coinvolgente ma in grado di sorprendere con la sua lunga e lisergica coda strumentale, dove affiorano magnifici echi shoegazer.

Non è certamente “Atlas Vending” un album “da cameretta”, da ascoltare a basso volume, anzi, sembra proprio che Alex Edkins e soci vogliano ogni volta ammonirci di tenere dritte le antenne su ciò che accade attorno a noi, scuotendoci e ammaliandoci al tempo stesso.

Un gruppo duro e puro, nel 2020 ce n’è assolutamente ancora bisogno.