A poco più di un anno di distanza dal suo “HTTP404”, Oscar Scheller è tornato con un nuovo album via Handle With Care dalla dolcissima (letteralmente), copertina dal titolo self-explainatory  “Boys Cry” .

Con la pubblicazione dei singoli, “Half Eaten”, “Peach” “I’m Enough”, “Average Joe” e “Famous Enough To Die”, Oscar ha anticipato al pubblico il mood dell’album, prettamente allegro e caramelloso, caratterizzato da sonorità  decisamente maturate ed elaborate rispetto ai suoi precedenti lavori.

Questo perchè, nel corso degli anni, il nostro giovane artista londinese non è stato mani in mano, collocandosi anzi nella cabina di regia di alcuni tra gli artisti emergenti su cui la scena internazionale punta maggiormente, come Arlo Parks o Ashnikko.
Le due artiste sono infatti appena uscite con i loro debut album, rispettivamente “Collapsed in Sunbeams” e “Demidevil”, i quali hanno dato risultati soddisfacenti sia a livello di gradimento del pubblico che di posizionamento nelle classifiche.

L’eterogeneità  di queste collaborazioni, la prima propriamente indie/songwriting, l’altra orientata al pop/trap/RnB, dimostra il fatto che Oscar Scheller  sia un eccellente e versatile produttore, in grado di spaziare tra i generi e capace di   spingere l’artista con cui collabora oltre i propri “limiti” stilistici, seguendo quella che è la sua idea e la sua linea d’azione.
Un esempio perfetto è il brano di chiusura dell’album di Ashnikko, “Clitoris! The Musical”, che è letteralmente un mini musical con tanto di gingle catchy e parti recitate.

Ma torniamo a “Boys Cry”, un album che, come l’autore stesso ha tenuto a spiegare, si sofferma sulla vulnerabilità  dell’uomo.
Per farlo, Oscar si sofferma su insicurezze, traumi personali, storie d’amore finite male e il dialogo perpetuo con sè stessi, che poi è la chiave fondamentale per affrontare tematiche così profonde e complesse.
L’intento è quasi politico, e “Boys Cry” vuole porsi come manifesto volto a tentare di riscrivere gli stereotipi della mascolinità  mostrando all’ascoltatore che, a differenza di ciò che ci viene insegnato, essere vulnerabili può diventare un pregio.
Risultare autentici e liberi dai condizionamenti della società , sostiene Scheller, ci aiuta a metterci in contatto con il prossimo, a chiedere aiuto e ci permette di accettare il dolore trasformandolo in forza, amore e compassione.

Devo dire di essere rimasta piacevolmente colpita da queste 17 tracce apparentemente innocue, dai suoni tipicamente pop (non proprio il mio genere prediletto), che in realtà  nascondono un forte, diretto inno alla queerness di cui davvero abbiamo bisogno.
Highligh su alcune tracce, obiettivamente più riuscite di altre: “Average Joe”, “I’m Enough” con Katie Gavin, “Fuck It All” e “Murder”, la più cupa e conscious dell’album.