Il dibattito sul rock che ormai non sa più essere innovativo, e che chi arriva al successo lo fa per mezzo del rimescolamento di stilemi già  ben sfruttati in passato, dura ormai da decenni ed è stato rinverdito di questi tempi grazie all’ascesa sulla scena internazionale dei nostrani Maneskin, accusati in sostanza di essere derivativi, di copiare pedissequamente alcuni modelli.

La cosa fa oltremodo rumore perchè, in un contesto storico in cui la fanno da padrone altri mondi musicali (ormai parlare di generi non ha molto senso), per una volta che il rock è tornato in vetta non solo nelle classifiche ma pure nei gusti del giovane pubblico, sembra sia preferibile o più comodo sbolognare la faccenda frettolosamente, inveendo contro ragazzi che non hanno inventato nulla. Stessa cosa successa ai Greta Van Fleet tra l’altro.

Non voglio divagarmi troppo o spendermi in giudizio di merito, è che mi pare essere solo il rock soggetto a questo tipo di rivendicazioni, e la domanda che mi pongo allora è: quand’è che ha iniziato a essere derivativo?

Mi aggancio a questo dibattito per arrivare al focus dell’articolo, la celebrazione del venticinquennale del disco di una band invisa a molti all’epoca, proprio perchè si rifaceva ad altre esperienze musicali, quasi imitando alcuni nomi del periodo.

Mi riferisco ai Bush di Gavin Rossdale, uno dei gruppi più odiati di quella scena, già  di per se’ aleatoria, definita post-grunge.

A pensarci viene da sorridere, dal momento che proprio il grunge all’inizio veniva visto come un fenomeno ben poco originale in fondo, eppure seppe ben rappresentare un intero decennio e fare da volano a una generazione che aveva bisogno di un megafono per potersi esprimere.

Chiusa quella gloriosa era in modo fisiologico, seppur drastico, visto che si è concordi nel porvi la parola fine con la morte del suo uomo simbolo Kurt Cobain, era allo stesso tempo plausibile che però non si esaurisse in un batter d’ali la sua spinta, la sua forza e la sua capacità  di affascinare e coinvolgere, non solo tanti appassionati ascoltatori, ma anche tanti artisti che si sentivano affini a quel periodo.

Sorsero così diverse band che si rifacevano a quell’immaginario, che ne traevano linfa, sia musicalmente che per tematiche, e la definizione post-grunge a un certo punto divenne agevole per tracciare uno steccato, un confine, tra le band primigenie e quelle venute dopo.

Due scene separate, quindi, anche (e soprattutto) a livello anagrafico se vogliamo, ma col senno di poi la cosa sembra quasi aver preso una connotazione diversa, come a dividere in gruppi di serie A e di serie B.

La critica è sempre stata assai severa con queste band, bollandole, in maniera a mio avviso azzardata, come non autentiche, e il mirino era rivolto soprattutto proprio ai Bush e ai Creed che, a detta di molti, si limitavano a scimmiottare i gruppi simbolo del grunge, rispettivamente Nirvana e Pearl Jam.

Ora, pur trovandomi d’accordo su alcuni punti, credo incontestabili, come le somiglianze vocali o alcuni giri armonici, ho sempre pensato che fosse troppo sbrigativo considerare i Bush alla stregua di meri cloni e in tal senso “Razorblade Suitcase”, pubblicato il 19 novembre del 1996, mi da’ modo di provare a mettere in luce le loro qualità .

Laddove il debut-album “Sixteen Stone” era in effetti molto in linea con la band di Cobain, con i suoi ganci melodici e i caratteristici stop and go chitarristici, e grazie a un innegabile appeal commerciale seppe imporsi agevolmente soprattutto al di là  dell’Oceano, andando a consolare tanti orfani nirvaniani, in questo secondo lavoro pare evidente, invece, sin dall’incipit che il mood sarebbe stato differente.

Passata la sbornia mainstream, con un successo giunto copioso in modo certamente inaspettato, e volendo evitare di strizzare l’occhio alla propria Madre Inghilterra (dove erano stati snobbati, d’altronde le band coeve stavano esplodendo proprio perchè stilisticamente e concettualmente si mostravano agli antipodi del grunge), Gavin Rossdale e soci decisero così di andare avanti per la propria strada, ignari della moda del momento; nel farlo, incanalarono i propri tormenti e il loro vissuto in una via ardita, mediante un apparato musicale ben più complesso e, generalmente, cupo e introspettivo.

Alla luce di questo, non mi sentirei io di sindacare sulla veridicità  di alcuni stati d’animo e di certo malessere che traspare da alcuni dei testi più emblematici del leader qui inseriti, preferisco piuttosto lasciarmi attraversare dal fiume in tempesta che pervade tutto il disco dal suo inizio alla fine.

Coadiuvati in questo dal produttore Steve Albini (altro fattore che farà  scattare determinate analogie), capace di assecondare e far emergere al meglio questa indole, la band londinese affidandosi alla tumultuosa “Personal Holloway” e alla più stratificata “Greedy Fly” – dove emergono toni dark – mostra subito rabbia e muscoli, con la scintillante chitarra di Nigel Pulsford in evidenza, al pari della robusta sezione ritmica imperniata sul fuoriclasse Robin Goodridge.

Bisogna attendere il terzo brano per ritrovare i primi Bush, quelli contaminati felicemente dallo spirito di Cobain, e in effetti “Swallowed” non lascia indifferenti grazie a ingredienti in fondo semplici ma che sappiamo riconoscere al primo assaggio. E’ una canzone indubbiamente trascinante e coinvolgente, l’ultimo omaggio esplicito a un’epoca musicale che al gruppo diede molto, ma dalla quale lo stesso sente ora il dovere di staccarvisi per abbracciare nuove forme espressive.

I risultati in questo disco non saranno sempre centrati, e a mio avviso i momenti più convincenti si trovano in episodi che poco concedono all’orecchiabilità  ma che molto lasciano in termini di emozioni: alludo in particolare alla dolente mid-tempo “Synapse” e alla profonda “Cold Contagious”, la quale si staglia dal resto della scaletta per pathos, interpretazione, atmosfera e intensità , rappresentando forse l’apice della loro intera produzione.

Il gruppo sa anche scaldare i cuori con ballads che magari non eguagliano la resa della fortunata “Glycerine” del disco precedente, ma le vanno vicino in quanto a valore: se la notturna “Straight, No Chaser” è il classico lento rock, il singolo “Bonedriven” risalta pure per un delicato arrangiamento.

Ho sempre pensato invece che i pezzi più duri, dall’andamento vicino al metal, non fossero molto nelle loro corde, cosicchè rimangono a metà  del guado episodi come la rumorosa “Insect Kin”, l’ondivaga “A Tendency to Start Fires” e la pur significativa “History”.

Resta il fatto che dopo il tentativo riuscito a metà  di unire rock ed elettonica del successivo “The Science of Things” (che per lo meno annovera un’ultima riconosciuta hit: “The Chemicals Between Us”), il gruppo preferirà  alimentare proprio la loro anima più dura, e lo farà  nel momento in cui le luci della ribalta si erano ormai sopite, segno di un approccio genuino e ormai radicato.

Proprio per questo, nonostante le sue imperfezioni, ho sempre apprezzato “Razorblade Suitcase”, poichè con questi tredici brani i Bush hanno iniziato a smarcarsi da un’etichetta pesante piombata addosso ai tempi dell’esordio – che sicuramente ha portato benefici in termini di successo e popolarità , ma anche come detto moltissime critiche – per provare a imporre un linguaggio e uno stile più personale, seguendo la loro vera inclinazione.

Non erano dei fenomeni venticinque anni fa e non lo sono nemmeno ora, non avranno il quid del genio, ma credo che la verità  stia nel mezzo, e che i Bush possano vantare un percorso credibile e onesto, con una manciata di canzoni che si fanno ricordare ancora oggi e punte autentiche di bellezza, possibili solamente grazie al talento e alla somma delle parti. E questo confortante giudizio può trovare la sua conferma, a maggior ragione, mettendosi all’ascolto, scevri da pregiudizi, di “Razorblade Suitcase”, un album che a distanza di un quarto di secolo si mostra ancora solido e rilevante, pur con i suoi limiti.

Bush ““ Razorblade Suitcase
Data di pubblicazione: 19 novembre 1996
Tracce: 13
Lunghezza: 61:43
Etichetta: Trauma Records/Interscope
Produttore: Steve Albini

Tracklist
1. Personal Holloway
2. Greedy Fly
3. Swallowed
4. Insect Kin
5. Cold Contagious
6. A Tendency to Start Fires
7. Mouth
8. Straight, No Chaser
9. History
10. Synapse
11. Communicator
12. Bonedriven
13. Distant Voices