Nel film che le ha fatto guadagnare il premio della regia all’ultimo festival del cinema di Venezia, Jane Campion decostruisce il genere western fiaccandone l’epica eroica e la violenza, riducendo quest’ultima alla psicologia di un torbido contesto familiare allargato.
Il Montana degli anni venti mostrato dal film è imperiosamente statico, immortalato da una fotografia naturalista e desaturata, e la vita dei mandriani è ripetitiva e priva di ogni slancio epico, ritorta sulla memoria di quella che era una volta la vita di frontiera.

Il Phil di Benedict Cumberbatch (alla sua migliore interpretazione di sempre?) non è un predone alla conquista di scalpi, ma un capriccioso e viscido manipolatore che mina la tranquillità  della sua famiglia, vista come una sorta di regno, per esercitare una necessità  di controllo che nasce dalla frustrante castrazione della sua vera essenza. La miccia che scatena la sua violenza è infatti l’arrivo nella tenuta di famiglia della moglie del fratello e del suo figlio efebico.

Nulla viene mai mostrato con chiarezza nel western della Campion, ma sottaciuto, accennato, lasciato accadere fuori lo schermo. Proprio come succede nella vita nascosta dei protagonisti.
L’espediente, insieme a stretti primi piani sui volti accigliati dei personaggi e alla musica tesa e misteriosa di Johnny Greenwood, instillano curiosità  e fanno vivere allo spettatore le angosce intime di un mondo al suo crespuscolo.