Come tanti loro colleghi, anche i Volbeat sono stati colpiti dal blocco alle attività  live imposto dalla pandemia. Nella primavera dell’anno scorso, infatti, il virus ha mandato all’aria la tournèe nordamericana di supporto a “Rewind, Replay, Rebound”. Una pessima notizia per la band danese che, fortunatamente, ha saputo reagire con forza e coraggio alla sonora batosta.

Il frontman Michael Poulsen si è rimboccato le maniche e, rinchiuso dentro casa per sfuggire al contagio, ha scritto le tredici tracce che compongono “Servant Of The Mind”. L’ottavo album dei Volbeat è, detto in maniera forse un po’ generica ma in assoluta sincerità , un più che convincente e coinvolgente riassunto delle puntate precedenti.

Un condensato super-melodico di hard rock, heavy metal, rock and roll, punk e psychobilly nel quale trovano ampio spazio tutte le ormai arcinote peculiarità  del quartetto: i riff muscolari, i ritornelli radio-friendly, le atmosfere “’50s, i toni “anthemici” e il cantato estremamente riconoscibile di Poulsen, figlio illegittimo di James Hetfield e Glenn Danzig. In parole povere: nulla di nuovo sotto il sole. Il classico disco per accontentare il pubblico variegato di arene e palazzetti, pieno zeppo di canzoni energiche e orecchiabili costruite ad arte per incendiare i più affollati festival estivi.

I volumi sono leggermente più alti rispetto al recente passato ma, in fin dei conti, la formula è più o meno sempre la stessa: un po’ di Metallica periodo Black Album (“Shotgun Blues”, “Temple Of Ekur”, “Say No More”), un po’ di Ramones (ascoltare “Wait A Minute My Girl” e “Heaven’s Descent” per credere), una sana dose di furbizia pop rock e le consuete sfumature vintage, capaci di richiamare il rockabilly più sfrenato (“The Devil Rages On”) ma anche il country e, perchè no, l’AOR ottantiano più dolciastro (“Dagen Før”, in duetto con Stine Bramsen degli Alphabeat).

Non è un lavoro indimenticabile questo “Servant Of The Mind” ma, a modo suo, ci offre rassicurazioni sullo stato di forma dei Volbeat, oggi maestri indiscussi nell’arte di rendere accessibile la musica pesante. Se siete interessati ad avvicinarvi per la prima volta al mondo di Michael Poulsen e compagni, questo è senza ombra di dubbio il miglior trampolino di lancio: un’introduzione completa e ben congegnata all’hard rock sfaccettato dei danesi, con tante ““ forse troppe? ““ conferme e anche qualche piacevole sorpresa (le chitarre surf di “Step Into Light”, i riff sabbathiani e le atmosfere sulfuree di “The Sacred Stones” e, dulcis in fundo, le mitragliate thrash dell’ultra-heavy “Becoming”).

Credit foto: Ross Halfin