Quando si dice che la somma delle parti non fa il totale: in sintesi si potrebbe ridurre a questa massima sempre valida il commento sul terzo difficile album da solista del batterista della più influente band degli ultimi 30 anni, che in “Strange Dance” prova a fare il passo verso una dimensione autoriale di alto profilo.

Credit: Phil Sharp

Partendo dal nobile presupposto di interpretare queste eterni momenti di passaggio in cui stiamo vivendo, suggerendo all’intera umanità di adottare una strana danza che ci permetta di cogliere lo spirito del tempo, Selway ripensa il suo percorso artistico ampliando la gamma degli stili fin qui proposti, basati sostanzialmente in un approccio musicale da onesto e godibile post rock mutuato dall’esperienza Radiohead, lasciandosi ora penetrare da influenze diverse, dilatando le canzoni con un ampio uso di
partiture d’archi e di fiati, contaminazioni varie, soprattutto ingigantendo la portata della proposta in senso orchestrale utilizzando una schiera di valenti musicisti con diverse fetaurings.

L’idea è che in “Strange dance” si voglia concentrare tutta questa potenza di fuoco all’interno delle singole canzoni, come se fosse vitale e corretto dare spazio nel brano ad una sorta di espansione classica del climax da rock band: si prenda ad esempio l’iniziale “Little Things” o “What keeps you awake at night”, che partono in sordina per poi liberarsi in code strumentali di alto spessore. Si sente che Selway ha un’alta considerazione dei suoi collaboratori ed in effetti la sensazione che ne esce è che poi ci sia stato un grosso lavoro di scrittura dietro l’album, che però spesso e paradossalmente trova il suo elemento più fragile nella performance vocale del nostro, poco espressiva, quasi senza mordente, decisamente decontestualizzata rispetto a ciò che si suona sotto. Le note di stampa a margine pare facciano capire che proprio il tentativo primario era quello di trovare una vera e personale voce al batterista, intento nobile e riuscito, in quanto spesso gli arrangiamenti dedicano parecchio spazio al cantato, ma ahimè questa
esibizione rimane dall’esito discontinuo e non permette alla melodia di agganciarsi a ciò che suggerisce la
musica, che meriterebbe altro sostegno, mentre di fondo vi è una mancata calibratura.

Le cose vanno leggermente meglio quando le ambizioni in partenza sono minori, come in “Picking up pieces” che sembra molto gli attuali The National, o nella title track minimalista con suggestioni addirittura vicine al Tom Waits di “Swordfishtrombones”, per non parlare dei diversi rimandi ai modelli della casa madre RH (“Make it away” “Check for signs of life”e altre) dove però l’impressione è che gli originali siano preferibili, o meglio, che si abbia a che fare con la “brutta” copia.