No, non riscriverà la storia della musica pop questo ottavo album di Miley Cyrus. “Endless Summer Vacation” è l’ennesima occasione persa da parte della ex starlette di Disney Channel, un’interprete di grande livello che finora ci ha regalato giusto una manciata di brani degni di nota. All’appello manca il disco realmente importante. Servirebbe un “Like A Prayer” o, per non volare così in alto, un “The Fame” per fare il vero salto di qualità e imporsi una volta per tutte nel pantheon delle celebrità senza tempo.

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Un “…Baby One More Time” più maturo e in linea coi tempi moderni. Un’opera iconica quindi, in grado di segnare un’epoca artistica e andare oltre tutte quelle apparenze e operazioni di marketing che pure sono rilevanti in questo ambito. O meglio, lo sono se riescono a restare impresse nel ricordo del pubblico (vedi il twerking dell’era “Bangerz”).

Miley Cyrus, come accennato in apertura, ha un talento cristallino e quasi innato. Ricordate Hannah Montana? Ecco: già da bambina era destinata a diventare un’eroina del pop mainstream. Al contrario di Britney Spears, è riuscita a non farsi fagocitare dal circo mediatico e a conquistare anche tanti ascoltatori non occasionali, forte di indiscutibili qualità artistiche e di un timbro di voce assai riconoscibile.

Canta con un’intensità e un’energia degne di un’interprete rock, genere tra l’altro già toccato nelle sue inflessioni ‘80s nel precedente “Plastic Hearts” (con ospitate di Joan Jett e Billy Idol) e qui nuovamente esplorato. In toni però molto più anonimi e meno incisivi, purtroppo.

Nessuna vacanza estiva senza fine, quindi: “Endless Summer Vacation”, nonostante la promessa eccitante contenuta nel titolo, scorre via in maniera abbastanza piacevole senza mai entusiasmare. Se non nel caso della hit “Flowers”, una bella ballad soul/disco pop che sembra un po’ costruita sui modelli – naturalmente inarrivabili – di “I Will Survive” e “Killing Me Softly With His Song”.

Per il resto si va sull’usato sicuro, senza tanti sussulti ma con un mare di ritornelli orecchiabili (“Jaded”, “Rose Colored Lenses”, “Violet Chemistry”…) e una certa varietà di stili. Un’opera poliedrica ma un po’ troppo fredda e calcolata, spaccata in due tra un primo lato pop rock, “suonato” da musicisti in carne e ossa, e un secondo lato dominato da sfumature elettroniche alquanto scialbe, contorni ideali per numeri dance pop poco o per nulla memorabili. Un album non brutto, ben prodotto ma abbastanza superfluo: l’ho ascoltato svariate volte e l’unica cosa che è riuscita davvero a stamparsi in testa è il giro di basso di “Flowers”.