La domanda giusta, ascoltando questo nuovo album dei favolosi Ruby Haunt, è…”Possiamo colpevolizzare Between Heavens per essere tutto quello che ci potremmo aspettare dai Ruby Haunt?” Per me la risposta è no. Io adoro questo sound autunnale, questa cristallizzazione in musica del momento in cui il giorno lascia spazio alla notte, eppure immagino che qualcuno potrebbe anche lamentarsi con Wyatt Ininns e Victor Pakpour per essere stati fin troppo prevedibili, per non aver lavorato maggiormente sull’ innovazione.

Io non la penso così, devo essere sincero, I Ruby Haunt hanno già dato prova di saper cambiare, visto che in passato hanno spostato il loro sound synthetico verso una forma di slowcore molto rurale, ma ora, già con il precedente lavoro sono tornati a quel sound che ha caratterizzato i loro esordi. Mi ripeto, la cosa non mi da fastidio: apprezzo il sound dei Ruby Haunt per il semplice motivo che questa fredda eleganza formale, caratterizzata da un synth-pop malinconico e notturno, è sempre capace di arrivarmi al cuore, generando immediata empatia e quando questo succede io credo che la band abbia raggiunto il suo risultato.

La prima traccia è un biglietto da visita che non ci si crede, forse uno dei brani più belli del duo, in assoluto. Questa tastiera eterea, il piano, la battuta ritmica che entra, il sibilo che sembra planare proprio sopra di noi…roba da pelle d’oca. Ecco cosa intendo. Ecco quello che trovo speciale nei Ruby Haunt. La magia che sanno sprigionare. Che poi in questo disco, a tratti, si adagino su alcuni loro “standard” è vero: la loro scrittura viaggia solida, certo, ma senza alcuna novità, senza rischi, forse un po’ più cupa che in passato…tutto è “molto Ruby Haunt“, eppure continuo a pensare che non sia affatto un problema o un limite, perché chi eccelle in un campo francamente non capisco perché debba spostarsi a fare altro in modo eclatante.

Tra i “classici”, se mi permettete il termine inteso come brani che sono effettivamente pieni del DNA Ruby Haunt, possiamo annoverare l’oscurità devastante di “Cold Front”, il ritmo di “Fallen Air”, una “Second Wind” che ci prende per mano e ci fa sognare, la toccante “Dark Star” e l’andamento morbidissimo di “Nightjar”, mentre accenni di novità stanno in “Rainbird”, che ha un lavoro ritmico che potrebbe appartenere a Craig David (e qui sicuramente i Ruby Haunt escono dal loro classico campo da gioco), ma anche una ballata pianistica e soffusa come “Dizzy”.

Insomma, il nuovo disco dei Ruby Haunt presenta poche sorprese e forse si scontra con il ricordo di un disco senza alcun punto debole come il precedente, in cui il ritorno al synth-dream-pop coincideva con una scrittura sublime, ma la qualità rimane alta.

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