Wilco. Capitolo tredicesimo. Il cugino che non ricordavamo di avere. 

Credit: Peter Crosby

Non un parente di sangue, ma acquisito. O forse un’amicizia, che col tempo sentiamo essere diventata parte integrante della famiglia, ma non sapremmo definire da quale preciso istante sia entrata nella nostra storia e in fondo non fa differenza.

– I’m nothing / My Cousin / I’m you – canta Jeff Tweedy, come sempre criptico nei testi.

Non siamo alle prese con fantasmi appena nati o con una patria crudele stavolta, ma i Wilco ci hanno abituati a non essere mai del tutto uguali a se stessi, per questo motivo si sono conquistati la nostra attenzione e sanno che li ascolteremo. Registrato a Chicago, tra le mura familiari del loro studio The Loft durante il gelido inverno dello scorso anno, “Cousin” vede per la prima volta dai tempi di “Sky Blue Sky” una produzione esterna affidata a Cate Le Bon, visionaria musicista gallese dalla vena art-pop.

Il materiale presente sul disco, il cui risultato finale condivide qualche filamento del suo DNA con l’approccio sperimentale di “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born”, affonda le radici nel 2019 ma venne temporaneamente messo da parte a causa della pandemia. A differenza del predecessore “Cruel Country”, che fu registrato come una live session scaturita dal semplice desiderio di tornare a suonare insieme, i brani di “Cousin” sono frutto di un meticoloso lavoro di studio, destrutturati e ricostruiti con elaborate stratificazioni. Il tocco di Cate Le Bon ha in effetti il sapore della sperimentazione, mai estrema ma ben controllata, come se qualcuno avesse cambiato il set up delle luci introducendo tonalità inattese in un suono consolidato per chi conosce i capitoli precedenti nella storia della band.

Un quadro impressionista è dipinto sulla opening track “Infinite Surprise”, da cui si intuisce che Tweedy and Co. ci stanno regalando uno tra gli album più creativi della loro prolifica produzione. Ci troviamo a fissare negli negli occhi una persona con cui abbiamo trascorso la vita (o forse stiamo interrogando noi stessi davanti ad uno specchio?) il ticchettio meccanico del tempo che scorre è costante, si sovrappone una chitarra, si aggiunge il synth, una grancassa pulsa sommessa come un battito cardiaco, entra trionfante un sassofono e assistiamo con infinita sorpresa al crescendo del gran finale, che termina in un fragoroso crepitio.

 – It’s good to be alive / It’s good to know we die –  Unica certezza assoluta che ci rimane, si apprezza maggiormente ciò che sappiamo destinato a finire.

A seguire “Ten Dead”, ballata trainata dal pianoforte sull’indolenza e impotenza con cui assistiamo alle notizie della cronaca, in cui la voce sommessa si amalgama come una litania alla melodia. Dieci morti, non più di dieci, meglio tornare a dormire, ormai assuefatti e rassegnati. “Levee” si interroga su un rapporto ormai logoro in cui si cerca la salvezza nell’altro o la speranza di sentirsi ancora utili, consapevoli che quell’argine forse non trattiene le angosce interiori. Il ritmo si ripete con un sottofondo di delicate note suonate con la slide, ma le parole sono tutt’altro che lievi.

– I love to take my meds / Like my doctor said / But I worry / If I shouldn’t instead –

 “Evicted” singolo che ha preceduto e fatto da traino al disco, forte delle sue sfavillanti chitarre, racchiude un trionfo di accordi in maggiore in contrasto con l’amara ironia del testo e condivide con la title track il tema dei rapporti troncati e del confrontarsi con le conseguenze delle proprie azioni. Collocato a metà album “Sunlight Ends” risulta il brano dal sapore più etereo ed incompiuto, costruito su drum-machine su cui si innesta un fluttuante arrangiamento di basso.

Un vorticoso fingerpicking elettrico introduce la splendida “A Bowl and A Pudding” in cui la voce si sdoppia riflettendosi in un eco sfalsato, che ben raffigura il glaciale distacco di un amore non corrisposto.

 – And the One / You Love / Is not Me –

In “Pittsburgh” si toccano vette sublimi con un muro di noise che argina l’incedere delicato della chitarra acustica, come se una cascata elettrica ghiacciata si riversasse sul suo umore lento e malinconico che non si apre mai in un ritornello. Protagoniste diventano poi le distorsioni della chitarra elettrica che dialoga con la batteria dell’eccezionale Glenn Kotche che sfiora tocchi jazz nel bridge, mentre Jeff Tweedy espone la sua vulnerabilità. 

– I’ve always been afraid to sing / That’s a little thing / Somehow that’s all I do / Strange as that seems / I’ve outlived my dreams – 

“Soldier Child” é il brano in cui il sestetto osa di meno, potrebbe essere un esule di “Cruel Country”, dove la melodia scorre leggera impreziosita da un lungo assolo di chitarra del sempre magnifico Nels Cline. Chiude la luminosa “Meant to Be”, con la sua freschezza innocente dai toni bubblegum pop. Non era forse il nostro amore scritto nel destino? Considerando le tematiche toccate nelle nove tracce precedenti, è confortante conservare l’illusione da happy ending che lo fosse.

L’art cover dell’artista giapponese Azuma Makoto “Frozen Flowers” ben rappresenta la contrapposizione tra la sensazione di leggerezza che lascia fiorire la vena pop delle melodie e la gravità del tempo presente, che si cristallizza in contenuti ben più impegnativi. Fiori ricoperti da stalattiti di ghiaccio, scultura effimera destinata a sciogliersi alla luce del sole, la cui impressione però perdura nel tempo. Quello stesso gelo permea i brani, quasi solari a tratti, ma con un rumore di fondo di inquietudine e caducità, a cui solo la speranza può far da contrappeso.

Wilco non sono mai stati la band delle hit che intasano le radio, forse mai è stata loro intenzione esserlo. Il cuore già avevano provato a spezzarcelo con “Yankee Hotel Foxtrot” e non sarebbe utile tentare di replicare all’infinito le glorie del passato, come molte altre band hanno preferito fare. Dividono i loro stessi estimatori tra coloro che li vorrebbero costantemente ancorati alle radici alt-country e chi li vede più a loro agio avventurarsi oltre la comfort zone. Con qualche anno in più sulle spalle e incalcolabili miglia di live accumulate in cui hanno stretto solidi legami con il loro pubblico, scelgono ora di aprirsi a nuove dimensioni sonore con un approccio inatteso da beginner’s mind e per una band che si appresta a celebrare 30 anni di carriera è una svolta apprezzabile. 

Concepito nel Midwest, scritto prevalentemente in mid-tempo, con qualche bagliore pop ed echi distorti che lo attraversano interamente, il cui ascoltatore medio sarà indeciso se considerarlo un capolavoro o storcere il naso deluso perché non rispecchia l’idea che si è fatto di una tra le band alternative più stimate d’America, è innegabile che “Cousin” sia un outsider nella discografia dei Wilco. Un album notturno e riflessivo, percorso da pennellate di suoni inattesi, a cui solo il benefico trascorrere del tempo potrà rendere onore.