Credit: Steve Gullick

La cantautrice nativa dell’Hampshire, dopo una lunga pausa dovuta ad un blocco creativo, è tornata a pubblicare un nuovo album che la vede anche in veste di produttrice. Inquietudine, sangue, ossa che scricchiolano, la nostalgia per ciò che non tornerà più e un gran sospiro di sollievo sono confluiti in un ritrovato desiderio di creare, svincolato da idee predefinite, che la rappresenta nella sua versione più autentica. Con “Big Sigh“, giunto dopo una serie di dischi che ne hanno consolidato la posizione di rilievo tra le musiciste britanniche più brillanti dell’ultimo decennio, Marika Hackman sembra essere entrata nella sua stagione dorata. Le abbiamo fatto qualche domanda per approfondire la realizzazione dell’album. 

Ciao Marika, benvenuta su IndieForBunnies!
Iniziamo parlando del tuo straordinario nuovo album, “Big Sigh”. Lo hai definito il disco più difficile che tu abbia mai realizzato ed é arrivato dopo un lungo periodo di mancanza di ispirazione. Ti sei presa una pausa dalla musica e potremmo affermare che sei tornata con l’oro tra le mani. Come ti senti ora che é uscito?
Mi sento incredibilmente tranquilla. Penso che dover anticipare l’uscita di un disco per così tanto tempo sia una sensazione orribile, è come essere trattenuti in un limbo senza poter passare al progetto successivo. Soprattutto perché “Big Sigh” è stato arduo da realizzare, credo che facessi così tanto affidamento sul risultato di raggiungere un pubblico esterno, che ora mi sento molto più rilassata. È stato un grande sollievo arrivare finalmente al traguardo, e mi ha davvero aiutata a ricollegarmi al disco dopo tanto tempo.

Sei riuscita a creare dei bellissimi contrasti, realizzati con le parole – so sublime / turn to slime – ma anche con i suoni – voci eteree e violini / chitarre grunge anni ’90 – e lo hai scritto in modo cinematografico, pur mantenendo l’intimità dei tuoi primi lavori. Ritieni che questo album segni una pietra miliare per te come cantautrice? Penso che lo sia. Credo che l’aver eliminato ogni idea precostituita su come sarebbe stato il disco prima ancora di iniziare a realizzarlo, e l’essermi concentrata solo sulla scrittura delle canzoni, mi abbia ricordato che il fulcro del mio lavoro deve essere la connessione emotiva. Una volta che ti sei aperto e reso vulnerabile, puoi lavorare sulla produzione di cui una canzone ha bisogno per raggiungere il suo pieno potenziale. Credo di essermi nascosta dietro a generi e personaggi negli ultimi due album, ma in questo sono autenticamente me stessa.

Sarebbe difficile dire che ha richiesto molto tempo per essere realizzato, considerando che è così profondo e ben strutturato. Penso funzioni così bene perché sei stata in grado di rendere la sua complessità coinvolgente per l’ascoltatore, come se entrasse nelle diverse fasi di una storia, come se ci fosse un messaggio segreto al centro. Com’è stato il processo che ha portato queste canzoni alla loro forma finale? 
È stato molto istintivo, non volevo inserire forzatamente idee di produzione in brani che non ne avevano bisogno. Gran parte degli arrangiamenti e delle parti li ho creati a casa, prima ancora di arrivare in studio, e questo ha delineato una tavolozza sonora che avremmo approfondito in seguito. Ritengo si sia trattato di recidere le parti estranee e di fare in modo che ogni pennellata fosse molto intenzionale, arrangiamenti più piccoli ma con più mordente.

L’hai co-prodotto insieme a Charlie Andrew, che ha lavorato con te in precedenza e con Sam Petts-Davies, che ha prodotto anche dischi dei Radiohead e The Smile. Com’è stata l’esperienza di lavorare con loro due?
È stato entusiasmante lavorare con un volto nuovo come quello di Sam. Farsi strada nella mente creativa di qualcun altro è sempre una buona esperienza di apprendimento e, naturalmente, porta nuove orecchie alla musica e al mio processo lavorativo. È stato molto abile a lavorare con la tavolozza di suoni organici e industriali e a spingere la dinamica delle cose. Charlie è il mio spazio musicale sicuro, così quando io e Sam ci siamo esauriti dopo mesi di lavoro sul disco, l’ho portato da Charlie in cui ho una fiducia innata per aiutarmi a finirlo con una prospettiva diversa.

“The Ground”, “The Lonely House” e “The Yellow Mile” sono collegate come se fossero la spina dorsale dell’album. Partendo dal tentativo di decifrare parole quasi illeggibili fino al sollievo finale quando si collegano tutti i fili ricordando di essere stati “felici per un po’”, come un gentile promemoria per il futuro a ricordarci che la felicità è stata (e può essere ancora) parte di noi. Che cos’è per te “l’oro in terra”?
L’oro in terra è giungere oltre la cima di una collina e scorgere la luce del sole che rimbalza sui fiumi e sulle pozze della valle sottostante. È qualcosa di bello, ma fugace e impossibile da catturare. Deve rimanere impresso indelebilmente nella memoria per la sua pura magnificenza, ma anche accettando il fatto che non lo si vivrà mai più. È la nostalgia.

C’è una canzone di cui ti senti più orgogliosa?
Poiché tutte assumono ruoli diversi all’interno del disco, è difficile individuarne una sola. Credo che “The Ground” sia stata una grande curva di apprendimento per me… è nata per puro istinto, sperimentando suoni e arrangiamenti che non avevo mai affrontato prima. Ero molto desiderosa di provare a trasformarla in una “canzone” o di spingerla ulteriormente verso qualche stravaganza orchestrale di 10 minuti, e in realtà alla fine era già perfetta così com’era. Penso che andare avanti mi abbia insegnato a non spingere le cose in direzioni in cui non hanno bisogno di andare, e che scrivere musica strumentale sia catartico e piacevole quanto le canzoni più convenzionali che scrivo.

“Vitamins” ha un tocco quasi da colonna sonora fantascientifica, soprattutto nel crescendo finale. Si sente anche un suono che ricorda una goccia che colpisce qualcosa, come hai creato quell’effetto? Potresti raccontarci qualcosa in più su questo brano? Quel suono è dato da un campione di woodblock e un campione di snare rim che ho elaborato su Logic. Penso che poi abbiamo registrato sopra delle percussioni reali e le abbiamo sovrapposte… Questa canzone è stata una delle poche volte in cui sono stata colpita dal testo per primo e ha richiesto molte iterazioni per raggiungere la sua realizzazione finale. Credo sia nata con la chitarra e un coro euforico di “please don’t be so kind”, che si sente anche altrove, per poi passare ad una versione con accordi di basso e shaker, ma piuttosto scarna. Ha preso forma quando ho deciso di trasporla al pianoforte e di eliminare il ritornello che non aveva il tono giusto per il testo. Invece abbiamo questo sciogliersi nel miele della parte strumentale che è stato completamente istintivo.

Una domanda più tecnica per i tuoi fan “gear nerd”: quali sono i tuoi effetti per chitarra preferiti?
Oh, non sono molto gear nerd quindi non credo di poter essere di grande aiuto. Ho un debole per un buon chorus, ricordo quando presi il mio Small Clone e ha cambiato totalmente il mio modo di scrivere.

Ci sono canzoni che non sono finite sul disco o forse hai cambiato qualche titolo? “Bag of Weather” era un precedente nome per “Big Sigh”? (Me lo chiedevo osservando la wall chart di produzione)
Sì, “Bag of Weather” era il nome originale di “Big Sigh”! Penso che ci siano anche altre due canzoni sulla wall chart che non sono state inserite… suonano ancora nella nella mia mente, quindi penso che ci sarà un modo per rielaborarle in futuro. O almeno lo spero.

Sulla copertina c’è un disegno abbozzato a matita di un carrello vuoto abbandonato in primo piano, con la prospettiva di un vasto spazio e le montagne in lontananza. Perché hai scelto questa immagine?
Credo riassuma perfettamente i temi del disco. Il contesto spaziale dato da quelle montagne lontane, cinematografiche e organiche, con una rada terra desolata parzialmente interrotta da questo ampio pugno nell’occhio di materiale industriale. Ma in questa incarnazione, anche il carrello della spesa diventa qualcosa di bello, i due opposti servono solo ad esaltare i ruoli che entrambi ricoprono, ed era questa la dinamica che stavo ricercando nel disco.

Le parti vocali, soprattutto in “The Yellow Mile”, mi hanno ricordato Elliott Smith e in “Covers” avevi incluso una splendida versione di un suo brano. In un’intervista lui dichiarò: “Mi piaceva l’idea di un’autosufficiente, infinita ricerca della perfezione. Ma ho un problema con la perfezione. Non credo che la perfezione sia molto artistica. Ma c’è qualcosa che mi piaceva nell’immagine di un pattinatore che procede in un cerchio contorto che non ha un vero punto di arrivo. Lo scopo non è quello di fermarsi o di arrivare da qualche parte, ma solo di rendere questa cosa più bella possibile”. Sei d’accordo con questa affermazione?
Sì, e credo che dipenda completamente da come si definisce la perfezione. I parametri di ciò che rende qualcosa “perfetto” sono così soggettivi che nella sua essenza non esiste realmente. Credo che la gente abbia dimenticato che creare qualcosa di bello è una forma d’arte. Penso che ci preoccupiamo del contesto, del significato, della rilevanza e dell’importanza e quasi deridiamo l’idea di bellezza intrinseca nell’arte.  

Il verso “To be an inversion of reality / And see how you magnify this side of me / I signed my deal with blood” e alcune note di pianoforte in “Blood” mi hanno fatto pensare a “Running Up That Hill”, in cui ritroviamo nel testo l’idea di invertire due realtà. Senti qualche legame con quella canzone? 
Adoro Kate Bush e “Running Up That Hill” è un classico assoluto. Non posso dire che abbia influenzato “Blood” in qualche modo, ma é sempre bello avere dei parallelismi con la grandezza, quindi grazie.

Ferite, sangue, ossa, gola, dita, gambe bagnate… la scelta di termini inerenti a parti del corpo, che è un tratto distintivo dei tuoi testi, suggerisce una rappresentazione molto “fisica” dei sentimenti, quasi a renderli tangibili. In “Big Sigh”, rispetto ai tuoi lavori precedenti, i sentimenti sono stati elaborati attraverso la lente di una lunga riflessione. Quanto le tue esperienze di vita hanno influenzato il tuo approccio alla scrittura?
Penso enormemente. Se stai creando musica sulle tue emozioni e sulle tue riflessioni sul mondo, è impossibile che le esperienze di vita non abbiano un impatto su di essa. La mia ossessione per i corpi e per tutta la violenza che contengono ha sicuramente a che fare con la mia esperienza di adolescente, quando ho contratto la sepsi a causa di un’appendice scoppiata e le conseguenze fisiche ed emotive che ne sono derivate. Trovo intrigante che le cose che ci uniscono, che ci rendono fragili e che ci rendono umani siano tutte cose di cui ci vergogniamo o che ci disgustano. È qualcosa che è sempre stato presente in tutta la mia musica.

Hai iniziato a suonare quando eri molto giovane, riflettendo sulla tua carriera c’è un momento speciale che ti fa piacere ricordare? 
Ogni volta che pubblico un disco provo un enorme senso di realizzazione, e ci sono stati numerosi alti (e bassi) negli ultimi 13 anni. Suonare a Londra lo scorso autunno è stato un momento straordinario per me, perché non suonavo dal vivo da così tanto tempo ed ero incredibilmente nervosa all’idea di tornare sul palco. Alla fine mi sono divertita moltissimo e mi sono sentita rinvigorita, mi ha ricordato che amo fare questo lavoro.

Sei stata in tour con gli alt-J e hai suonato anche con The Big Moon, Sivu, Ben Gregory, solo per citarne alcuni. Ci sono altri artisti con vorresti collaborare in futuro?
Trovo difficile collaborare perché creare musica, in particolare scrivere, è un’esperienza molto vulnerabile, ma credo che questo sia di per sé una grande sfida da superare. Ci sono così tanti artisti con cui mi piacerebbe collaborare, ma se dovessi sceglierne alcuni direi Alex GJoanna NewsomPJ HarveyRadioheadWarpaint.

Un’ultima domanda, il tuo tour nel Regno Unito e in Europa inizierà a breve e saremmo davvero lieti di vederti suonare dal vivo nel nostro paese. C’è la possibilità che tu venga in Italia in futuro? 
Mi piacerebbe molto venire in Italia, quindi incrociando le dita prima o poi ci verrò. È molto difficile perché ci sono tanti fattori che sfuggono al controllo degli artisti e che contribuiscono a stabilire dove, quando e come si fa un tour, ma vedremo!