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Il Festival di Sanremo è finito. Poco o nulla ci importa del vincitore.

Finalmente possiamo iniziare ad andare oltre alla scala, i fiori, l’orchestra, la farsa luccicante e sfarzosa di un enorme carrozzone televisivo nazional-popolare, che si trasforma nella valvola di sfogo mediatica attraverso la quale detrattori e sostenitori, politicanti ed imbonitori, traballanti influencer ed odiatori seriali possono, per qualche giorno, atteggiarsi a critici musicali, tagliare teste e, soprattutto, inondare i propri social di giudizi trancianti, di sentenze di colpevolezza, di atti di clemenza e di urla e grida virtuali di approvazione o di condanna, come se qualcuno di loro avesse davvero a cuore la sorte di queste povere canzoni.

Un unico interminabile ritornello, dunque, fondato sull’irrazionale e paranoico desiderio di infliggere punizioni e perdono, cancellando le preziose alternative delle vite parallele cantate da Battiato, un’esclusività, tossica e pericolosa, bellicosa e minacciosa, di cui ognuno – nell’anonimato del proprio salotto, nella ferocia della propria impotenza domestica – diventa l’insano portatore, convincendosi di essere il centro estetico dell’intero universo, punto di accumulazione di gusti e di sonorità rivoluzionarie, capaci di interpretare e di spiegare, alla massa narcotizzata di sciocchi e superficiali spettatori, l’essenza di quello che abbiamo ascoltato ieri, di quello che stiamo ascoltando oggi e di quello che, sicuramente (?), ascolteremo domani.

Una kermesse, quella dell’Ariston, che, invece, non è mai stata in grado – in tutta la sua storia – di tratteggiare alcun orizzonte musicale o artistico innovativo, ma che ha sempre cercato, nel nome dei suoi profitti, di rimanere nel solco, rassicurante e familiare, del proprio fasullo struggimento, delle proprie scenografie, del proprio buonismo politicamente corretto, delle proprie canzoni d’amore, mescolando, sapientemente, pop e trash, gossip e politica a buon mercato, folklore e tradizione, leggende e luoghi comuni, ed, infine, quel miscuglio di potere, di corruzione e di bugie, di cui – prendendo spunto dal secondo album dei New Order del 1983 – dobbiamo, necessariamente, prendere consapevolezza se vogliamo veramente lasciarci alle spalle le ombre ed i fantasmi darkeggianti dei Joy Division ed incamminarci verso le trame new-wave dei sintetizzatori, dei sequencer e delle drum machine.

Ma, negli anni, Sanremo è stato anche il palco sul quale si sono esibiti, come ospiti, artisti diversi, alcuni solamente per cavalcare le mode del momento, altri perché potevano davvero esprimere un’idea, un sentimento, un suono capace di risvegliare gli zombi di allora, come quelli di oggi, dal loro malefico e bellicoso torpore.

Buon ascolto, dunque, This Is Not Sanremo.