I Glass Beach sono una giovane band americana che ha iniziato a far parlare di sé nel 2019 con un disco d’esordio, intitolato in maniera non troppo originale “the first glass beach album”, che ha saputo attirare le attenzioni delle principali testate internazionali e degli appassionati di musica più attenti alle novità che nascono e prosperano su internet. Il gruppo, composto da J McClendon (voce, chitarra, tastiere), Layne Smith (chitarra), Jonas Newhouse (basso, sintetizzatori) e William White (batteria), è riuscito a farsi un nome per la spiccata capacità di unire, con disinvoltura e originalità, generi musicali diversi e apparentemente inconciliabili.

Credit: Joey Tobin

Un talento di cui i Glass Beach fanno ampio sfoggio nelle tredici tracce di “Plastic Death”, il loro secondo attesissimo album che li vede cimentarsi con un progressive rock ultra-moderno, elastico, vivace e pieno di sfaccettature. Un vero e proprio viaggio sonoro che include richiami all’emo, al pop punk, al post-punk, al metal, al math rock, all’elettronica, alla fusion e all’art pop, senza quasi mai perdere di vista la coerenza e la coesione. Il talento artistico e tecnico dei musicisti coinvolti nell’opera è evidente, e si nota anche il contributo del produttore Will Yip, che ha saputo valorizzare le potenzialità del gruppo per dare alle stampe un disco al tempo stesso sperimentale e radio-friendly, pieno zeppo com’è di melodie orecchiabili capaci di squarciare il velo di pesantezza che aleggia sull’intera opera.

Nonostante le apparenze e l’hype, “Plastic Death” è ben lontano dalla perfezione. La band è così ambiziosa da sfiorare l’arroganza; nella speranza di impressionare l’ascoltatore, spesso e volentieri suona pomposa ed eccessiva, incapace di tenere a bada il desiderio di mettere in mostra tutte le innumerevoli influenze che includono anche artisti del calibro di Jeff Rosenstock, They Might Be Giants, The Brave Little Abacus, 100 Gecs e Boygenius. Sullo sfondo si scorgono anche richiami ai Weezer, agli Alt-J, ai The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die e ai Radiohead (la voce di J McClendon è molto simile a quella di Thom Yorke).

Il disco è troppo lungo e tanti pezzi sono appesantiti da elementi e passaggi superflui, che ne rallentano il ritmo e la fluidità. I classici difetti di chi prova a fare il passo più lungo della gamba. Ma i Glass Beach sembrano comunque destinati a un futuro importante: hanno già uno stile personalissimo, anche se ancora troppo confuso e articolato, e hanno dimostrato di saper scrivere canzoni piacevoli e ricche di fantasia, in grado di spaziare tra diversi generi e atmosfere, senza rinunciare alla melodia e a un certo grado di spontaneità.

Hanno solo bisogno di limare le sbavature. Di trovare un equilibrio tra ambizione e semplicità, tra sperimentazione e accessibilità. In conclusione, “Plastic Death” è un album convincente ma non a fuoco, che gira davvero molto bene solo nei suoi momenti più raffinati, melodici e dolci. Per nostra fortuna, non sono pochi: consiglio vivamente l’ascolto di “Guitar Song”, “Rare Animal”, “Cul-De-Sac”, “Puppy” e “The Killer”.