I Mogwai che quindici anni fa si apprestavano a tornare sulle scene con “Mr. Beast”, quinto album sulla lunga distanza del loro catalogo, erano già  seduta stante un gruppo di culto, nonostante si fossero formati soltanto un decennio prima nel loro nucleo originario.

Lo erano diventati grazie a una miscela straordinaria di ingredienti quali suoni e atmosfere: la loro era sin dagli esordi una musica se vogliamo primordiale (fatta di una strumentazione tipicamente rock, chitarre basso batteria) ma assai raffinata e particolareggiata, tanto da far tirare in ballo ipotetiche parentele col prog.

Un rock assolutamente non standardizzato, dalla struttura indefinibile, caratterizzata com’era da vertiginosi lanci nel vuoto e muri di chitarre che si intrecciavano avvinghiati da una sezione ritmica incalzante che, però, anzichè finire per stritolare metaforicamente l’ascoltatore, lo avvolgeva quasi rassicurando che l’avrebbe protetto al suo interno.

E’ quasi impossibile ascoltare un qualsiasi disco di Stuart Braithwaite  e compagni senza farsi trasportare da emozioni profonde, in grado di scuoterti l’anima e di farti vivere una gamma completa di sensazioni e rimandi.

Le loro canzoni sfuggono da facili definizioni, non si catalogano in una casella, poichè quello dei Mogwai è da sempre – ma che in particolare da “Come On Die Young” diverrà  assolutamente riconoscibile come loro peculiarità  – un rock poco convenzionale, aperto a soluzioni nuove e inaspettate all’interno anche della singola opera, un’attitudine che sembra prendere da altri mondi sonori come il jazz ma che, convenzionalmente, verrà  associata a un mondo – sempre più macro – definito post rock.

Le armonie sono infatti dilatate, i brani assumono forme cangianti e il canto è isolato, compare e scompare, si nasconde fra le pieghe di melodie ben presenti ma anch’esse rivestite di un’aura di epicità  e sottigliezza insieme.

“Mr. Beast” arriva non dico a limare le istanze naturali e selvagge del gruppo, ma quanto a meno a cercare di definirne alcuni confini.

E’ l’album fino a quel momento senz’altro più accessibile, e la cosa un po’ stride se pensiamo che per la maggior parte è un lavoro essenzialmente strumentale.

Al suo interno sono presenti persino tre brani che potremo quasi definire delle ballads, tra l’altro differenti fra loro ma tutte dalla forte impronta pianistica: dalla notturna “Auto Rock” che ha il compito di inaugurare la track- list, alla malinconia soffusa di “Emergency Trap” fino all’intensa “Friend of the Night” che a me fa scendere persino una lacrimuccia di commozione (e sì che l’ho ascoltata un’infinità  di volte), i Mogwai dimostrano che non sono (più) solo “rumore” ben congegnato o l’unione fragorosa di chitarre a creare il giusto magma sonoro, ma un combo che sa maneggiare la forma canzone a suo piacimento fino a realizzare delle suite musicali sempre più ricche di sfaccettature e dal riscontro emozionale elevatissimo.

Volendo si potrebbe sottolineare che in questo disco compare forse anche la prima potenziale hit (mancata) della loro carriera, l’orecchiabile e trascinante “Travel Is Dangerous”.

Non sto dicendo tuttavia che manchino le tirate rock cui ci avevano abituati, quel sovrapporsi di piano e forte che ti sapeva condurre in vorticosi rollercoaster emotivi (basti ascoltare l’andamento in crescendo della splendida “Folk Death 95” o la botta in faccia della veemente “Glasgow Mega-Snake”, con la sua atmosfera minacciosa e obliqua), ma il tutto è come filtrato da una patina di vernice che rende l’esperienza più appagante e rilassante, sempre tenendo conto delle sorprese che possiamo incontrare lungo il cammino (vedi l’onirica “Team Handed”, cui fa da contraltare la sonica “We’re No Here”, quasi a fine corsa).

Dall’inizio alla fine vediamo così diverse facce di una stessa medaglia, a comporre un mosaico a mio avviso perfetto (e difatti ammetto che questo sia il mio disco preferito del gruppo)  dove convivono come detto tante anime in ebollizione.

Non manca certo il loro lato più sperimentale (penso alla cosmica “I Chose Horses”, dove intervengono Tetsuya Fukagawa impegnato in uno spoken word e Craig Armstong alle tastiere) ma se proprio dovessi definire il segreto della riuscita di questo splendido disco, andrei a tirare in ballo l’apporto – più evidente qui che in altri lavori precedenti – del polistrumentista Barry Burns: le sue note di pianoforte sanno colpire davvero nel profondo.

Poi però a ben vedere, come sempre nei Mogwai è l’insieme degli elementi a funzionare al meglio e a fare la differenza, rendendo unico e meraviglioso un percorso che a tutt’oggi non solo continua brillantemente ma che non ha perso un grammo della sua bellezza.

Data di pubblicazione: 6 marzo 2006
Tracce: 10
Lunghezza: 43:07
Etichetta: Play It Again Sam/Matador
Produttore: Tony Doogan, Mogwai

Tracklist
1. Auto Rock
2. Glasgow Mega-Snake
3. Acid Food
4. Travel Is Dangerous
5. Team Handed
6. Friend of the Night
7. Emergency Trap
8. Folk Death 95
9. I Chose Horses
10. We’re No Here