Una volta le parole erano un gioco, in cui cercavamo i segni dell’amore: erano le parole che sottolineavamo in un libro; le frasi in cui leggevamo noi stessi e che annotavamo sui nostri diari. Era soprattutto la ricerca di parole per descrivere e provare a spiegare la felicità  di essere innamorati. Finchè un giorno, non abbiamo smesso di cercare, cadendo nei tempi oscuri, ciechi, in cui non rimane molto da dire. Delle parole dette un tempo, con gli occhi di oggi, sotto le luci del presente, rimane soltanto un doloroso ricordo e mille domande: un tempo era amore, oggi cosa è diventato? Soltanto una faccia per cancellare tutto il resto? Eppure, ci sono parole di cui ancora portiamo i segni sul corpo: è quell’amore ostinato, che aspetta qualcuno che non arriverà  mai; un sentimento che quasi non fa più male, perchè è ormai parte di noi.

Muovendosi tra le nenie sognanti e malate del Badalamenti di “Twin Peaks” (“What of Me” e “My Hands Up”), le distorsioni al limite del comprensibile degli Slowdive (“Safe, Sound”), le ballate di Sarah McLachlan (“Weakening” e “Low Point”) e il dream-pop di Elysian Fields e Cowboy Junkies (“No One” e “Matching Weight”), i Trespassers William di Anne-Lynne si affidano ancora alle parole, sapendo però che non durerà  per molto.

Il loro secondo album, “Having”, è il tentativo di superare l’inutilità , la passività  del presente: le canzoni sembrano sempre sul punto di esplodere, sul punto di trovare l’uscita dal tunnel, di trasformare – come i Galaxie 500 – in malinconia il dolore. Ma, raggiunto quel bivio, i Trespassers William si arenano sulle sabbie della disperazione; decidono di tornare indietro, crogiolandosi nei loro dispiaceri; relegando “Having” ad un disco che ci ricorda i momenti tristi della nostra vita; la colonna sonora che avremmo voluto dimenticare; la persona che non avremmo più voluto incontrare, per il timore di ricominciare a soffrire.