E’ tardi. E’ notte fonda, saranno passate le tre. Proprio non riesci a dormire e domani ti devi anche svegliare presto. Quando eri piccolo ti rivoltavi nel letto alla ricerca della posizione definitiva, a pancia sotto, un braccio sotto al cuscino, senza coperte o con le gambe piegate nei modi più assurdi quasi a sfidare le leggi della meccanica. Quando la situazione diventava insostenibile, sull’orlo di una crisi isterica pre-adolescenziale, immancabile come sempre, tua madre si svegliava per sussurrarti qualche canzoncina dall’origine incerta ma dal sicuro effetto soporifero. Ma ora come si fa? Sei lontano da casa, da solo e quella dannata sveglia non la smette di picchiettare ogni maledetto, singolo secondo. Le hai provate tutte: camomile, tisane, tutti i rimedi della nonna, hai provato a contare le pecore ma a quattro già  ti sei stancato. Allora non ti rimane altro che far partire sommessamente l’ultimo disco delle CocoRosie. Le sorelle Bianca e Sierra stavolta sono volate fino in Islanda per registrare la loro ultima fatica negli studi di Reijkiavick. Insomma lì si respira aria buona, avranno pensato, e magari tra un licheno ed un geiser ci viene anche l’ispirazione.

Ora non so che sensazioni possa dare ad uno straniero la terra del ghiaccio per eccellenza, ma le evocazioni dei Sigur Ros, dei Mùm e compagnia cantando sono ben lontane dalle atmosfere che evaporano da “The adventures of ghosthorse and stillborn”. Album minimale fino all’eccesso, lo-fi nell’attitudine e dal risultato decisamente casareccio, con tastierine Casio e altre chincaglierie come strumenti dominanti in una desolazione melodica che ben trasfonde su disco il ghiaccio della terra di Bjork. Piccole ballate hip-hop come nell’iniziale “Rainbowarriors” fanno ben sperare per il prosieguo, ma le aspettative vengono man mano disattese. Le atmosfere sono sempre pacate, filastrocche da ninnananna, ma le intenzioni vengono tradite dalla messa in pratica; il vero problema è che la musica coi suoi riff e le sue melodie manca del tutto e se non fosse per la buona produzione, che ad esempio riesce a far diventare strumento il tintinnare di monete, questo sarebbe un album realizzabile da tutti.

Come tutte le cose di ‘genere’, le CocoRosie si arroccano su posizioni autocompiaciute ed eccessivamente manieriste senza sfociare nel mare magnum della musica a tutto tondo. Rimangono un fiumiciattolo di montagna, che fa tenerezza e romanticismo mentre lo si guarda nel suo affannarsi tra le rocce ma che si dimentica al primo volgere del capo. “Japan”, “Sunshine” e “Black Poppies” si susseguono nel timido carillon delle sorelline lo-fi, senza sussulti o particolari slanci emotivi. Disco privo di levità  che nell’esasperata ricerca di originalità  si perde, lasciando polvere e qualche lieve suggestione. Forse sarà  un mio problema che in certe sonorità  artificiali non riesco ad immergermi, che adoro la chitarra riconoscendola unica cassa di risonanza di anime e spiriti, ma proprio non riesco ad andare oltre una placida benevolenza nei confronti delle CocoRosie. Inoltre….Hey, ma che fai? Ti sei addormentato?
Allora le sorelle americane sono servite a qualcosa. O sono stato io?