La curiosità  è un pesante fardello. Lo è stata prima di “Whatever People Say I Am, That’s What I Am Not” (2006) e lo è ancora di più ora, ad un anno da quella che è stata – nel bene e nel male – una svolta nella vita di questi quattro ragazzi di Sheffield e nell’indie world in generale: curiosità  di sapere se la storia delle due chitarre elettriche, regalate a Alex Turner e Jamie Cook per Natale, sia vera; di capire come si siano ritrovati, nel giro di una manciata di gigs, a passare dal The Grapes allo Sheffield Forum; di dare una spiegazione alle 120 versioni diverse dei loro brani, che circolavano in rete ancor prima che fosse uscito un loro disco; ma, soprattutto, curiosità  di capire se le lodi del NME siano giustificate o se si tratti semplicemente degli Arctic Monkeys che suonano come i Libertines che suonano come i Clash.

A questo proposito, il loro secondo disco dovrebbe dirci Who The Fuck Are Arctic Monkeys (2006) e cosa vogliono fare da grandi.
L’occasione è ghiotta, ma potrebbe rivelarsi una trappola (vedi Clap Your Hands Say Yeah e, almeno parzialmente, Bloc Party): dimostrare di non essere un souvenir da quarto d’ora andywharoliano. In una parola, di non essere ‘pop’.

“Favourite Worst Nightmare” trova dunque i quattro blokes con ancora indosso le loro t-shirt (e con l’immancabile stecca da biliardo appoggiata su una spalla) e con la cravatta al collo – frutto probabilmente del milione e passa di copie (360.000 soltanto nella prima settimana) che hanno fatto vendere alla Domino – ma ancora insoddisfatti, senza saperne il motivo (musicalmente, questo è un bene!); e, nell’album, questo feeling da “cercare indizi negli occhi di un cadavere” si avverte dannatamente!

Ci pensa il primo singolo/ opening track (“Brianstorm”), con le sue cavalcate adrenaliniche, a togliere ogni dubbio: malgrado tutto quello che è successo, sono – fortunatamente – ancora loro, con un anno in più di esperienza alle spalle e – soprattutto – una produzione più consapevole, affidata a James Ford e Simian & Mike Crossey. Anche questa volta sono i dialoghi tra chitarre, basso e batteria a farla da padrone (“Do Me A Favour” e “If You Were There, Beware”), mentre i quattro di High Green si destreggiano con sorprendente scioltezza tra chorus contagiosi (“D Is For Dangerous”), cambi di tempo e break piazzati là  dove servono. Con due ballate a dividere e chiudere il disco (“Only Ones Who Know” e “505”) ed una manciata di influenze che non si limitano ai soliti nomi, spingendosi fino a richiamare i Blur (il secondo singolo, “Fluorescent Adolescent”, e la già  detta ballata a metà  album) e citare i Duran Duran in “Teddy Picker” (ma io ci vedo pure gli Offspring), gli Arctic Monkeys dunque si confermano alla grande, smentendo molti indie snob della prima ora (tra cui il sottoscritto) e proponendosi – ancora, nel bene e nel male – come unica e vera band rappresentativa di un’intera generazione. I soli difetti, già  presenti peraltro nel loro precedente lavoro, potrebbero essere l’eccessiva omogeneità  tra le 12 tracce dell’album ed una certa ingenuità  di fondo che pervade le liriche: ma vi assicuro che, ascoltando l’album, a tutto questo si fa poco o per nulla caso.