Ritorna dopo un tempo che sembrava ormai interminabile quella che probabilmente si è rivelata come la realtà  più affascinante di quella scena musicale, affermatasi durante gli anni Novanta, che verrà  denominata “trip-hop”.
“Third” è il titolo semplice semplice dell’opera che sancisce il ritorno dei Portishead sul mercato discografico.
Ci si era accontentati di ascoltare le fragili (in senso buono) interpretazioni di Beth Gibbons nell’ottimo “Out Of Season”, incantevole disco dalle tinte autunnali composto assieme a Paul Webb (ex-bassista dei Talk Talk), perse ormai le speranze di poter riascoltare nuovi brani della coppia bristoliana.

Ma ora questa lunghissima marea è finita e possono ritornare a riva
quei languidi spettri musicali marchiati con la famosa “P”.

Ci rendiamo conto che l’aura, il profumo dei Portishead sono sempre quelli. Percepiamo la loro essenza e avvertiamo un senso di familiarità . Tuttavia questa sensazione non dura molto. C’è qualcosa che non quadra. Anzi parecchie cose cominciano a non quadrare.
E non crediate che questo sia un commento negativo. Tutt’altro: l’album risulta piacevolmente sorprendente. Dubbiosi sulle prime, affondiamo nei versi interpretati magnificamente da Beth mentre piano piano ci convinciamo di essere di fronte ad una meravigliosa, azzeccata evoluzione
del sound del duo.

Vi sembrerà  un’eresia, ma questo “Third” si avvicina pericolosamente alla bellezza perversa di “Dummy”, lo fissa con sguardo severo, finisce quasi per sovrastarlo, per allungare su di esso una fagocitante, scurissima ombra ricolma di sinistri presagi, i quali cavalcano minacciosi la batteria galoppante (ebbene sì) di “Silence” verso un dolce schianto contro le fredde nebbie dell’Oblio, nelle quali troviamo una Gibbons sconvolta, ridestatasi da una trance che l’aveva portata ad entrare in contatto con un alter ego negativo diBjork.
Ritmi vagamente tribaloidi (senza mai essere squassanti) fendono anche l’asciutta “Nylon Smile”, puntellata da una chitarra minimale e da inserti elettronici tarwateriani, e l’impressionante “We Carry On” (vetta dell’opera), che non riuscirà  a tenere a lungo nascoste dentro di sè catastrofiche pulsioni dark. Scelgono scenari sempre più apocalittici e claustrofobici i Portishead, vedi la “doomizzata” Small (schegge acuminate di chitarra e torvo organo in marcia) e la “robotica” “Machine Gun” (batteria elettronica marziale e finale affidato ad un motivo sci-fi di tastiera), i due esempi più fulgidi in tal senso.

Che ne è stato del trip-hop che fu? Esso rinasce sotto altre spoglie (“Magic Doors”, che conserva reminescenze della desolata “Sour Times” di “Dummy”, “Plastic”, “Threads”), ma è stato sfigurato e inserito dentro atmosfere che hanno in parte perso quel gusto “metropolitano” in favore di una introspezione totale, alla ricerca di (o in fuga da) paure ancestrali.
Le delicate ballate “Hunter”, “The Rip” e “Deep Water” (con la chitarra acustica a pennellare malinconici quadretti folk) ci offrono una Gibbons un po’ più “soul” e apportano un lieve sollievo senza però riuscire a far sparire quella sensazione di oppressione (d’altronde assai piacevole) avvertita durante tutta l’esperienza d’ascolto del full length.

Third.

Requiem.

Rinascita.