Al Charlotte hanno suonato tutti quelli che nell’ultimo ventennio hanno avuto almeno una hit da passare in radio. Nonostante le dimensione di un palco che definire angusto è un eufemismo, qui hanno suonato i Radiohead e gli Oasis degli esordi; i Libertines e i Bloc Party nel pieno dell’ondata indie di qualche anno fa. Le pareti a fianco il bancone sono tappezzate di vecchie locandine in bianco e nero che riportano le tracce di quella stagione, e mi chiedo se il pubblico di allora fosse diverso da quello che affolla il Charlotte stasera. L’età  media è davvero bassa, ci aggiriamo sui sedici anni, e come è giusto che sia le prime file sotto il palco sono occupate tutte da loro, febbrilmente alla ricerca di un asciugamano sudato (cosa che accadrà  puntualmente per gentile concessione del cantante degli Holloways) o di un plettro da riportare a casa. Il resto della sala è un mix di ragazzi sulla ventina, coppie di genitori defilate costrette ad accompagnare i propri figli dileguatisi sotto il palco e le solite fidanzate dei membri del gruppo spalla locale che stanno lì ad alzare il morale.

In piena tradizione inglese il concerto inizia sul presto; la scaletta prevede l’esibizione di ben quattro gruppi spalla, di cui due evitabilissimi, che fanno slittare il pezzo clou della serata di circa tre ore in cui la sottoscritta a fatica ha trattenuto gemiti di fastidio. Si inizia con un innocua parentesi di cantautorato folk maschile, seguito da una delle aspiranti eredi di Kate Nash e Lily Allen: chitarra, voce in falsetto, pause ed effetto e testi che spaziano dalle sbronze della sera prima a uomini che capiscono tutto tranne quello che dovrebbero. La vera sorpresa della serata sono i The Chairmen, un gruppo di cinque ragazzi di Hinckley che seppur non originalissimi sono riusciti a coinvolgere il pubblico e a suonare live in modo molto più convincente degli stessi Holloways. Che il gruppo in questione non fosse incolore come gli altri gruppi spalla lo si è capito appena hanno attaccato con “Kiss and Run”, molto più aggressiva e convulsa della sua versione Myspace. A giudicare dalle reazioni del pubblico che addirittura anticipa e canta a memoria quasi tutti i pezzi sembra che i The Chairmen si siano costruiti una buona base locale a furia di serate come questa, e non dovrebbe mancare molto al momento in cui diventeranno una realtà  nota anche fuori dalle East Midlands, se non altro per il potenziale carismatico (anche qui, non originalissimo negli scimmiottamenti alla Doherty) del cantante Johnny Gavin. Dopo quest’esibizione sudata e adrenalinica sarebbe il momento per gli Holloways di farsi avanti, ma purtroppo non si sa come appare sul palco un duo rock-a-billy che decide di allietare il pubblico con una sfilza ininterrotta di dieci pezzi straordinariamente tutti uguali che rischiano davvero di fiaccare il morale a tutti. Superato l’ultimo ostacolo, arrivano gli Holloways che si dispongono sul palco sorridendo e senza fretta, evidentemente rilassati dall’idea di concludere il tour dopo due mesi in cui hanno fatto su e giù per l’Inghilterra proprio al Charlotte.

Iniziano con “Where’s My Control”, ma la resa live non è delle migliori; sembra che nonostante gli sforzi il suono resti sempre un po’ sottotono. Va meglio con “Dancefloor”, e da lì in poi è un alternarsi di canzoni che bene o male sono diventate delle hit buone per un quarto d’ora di celebrità : “Two Left Feet”, che riporta in auge il fascino della fisarmonica e delle atmosfere campagnole, una stranamente più sporca “Great Britain” che malgrado il titolo fa capire quanto gli Holloways ammicchino al rock’n’roll americano degli anni ’50 e l’immancabile ‘Generator’ su cui si scatena il pogo innocente e mai pericoloso delle prime file. Il tutto per un’ora o poco più di concerto in cui gli Holloways chiacchierano costantemente con il pubblico, lanciano asciugamani sudati e dedicano canzoni alle ragazzine con gli occhi a forma di cuore che stanno sempre lì sul punto di spogliarsi davanti al bassista, quasi come se stessero suonando a una festa di liceo e non in live pub sporco e cattivo. Ma gli Holloways sono chiaramente lì per divertirsi, e non per scrivere una pagina immemorabile della storia musicale degli ultimi dieci anni. Sarà  capitato anche a loro di essere definiti come l’ultima grande promessa musicale da Nme, e sarà  capitato anche a loro di dover venire a patti con la realtà  e raddrizzare il tiro quando si sono accorti che non sarebbe andata proprio così. Non c’è niente di male allora a prendersela con calma e a rischiare delle serate come questa in cui, imprevedibilmente, vengono oscurati da un gruppo di emeriti sconosciuti che suona prima di loro e la reazione più significativa che riescono a procurare non va al di là  di un modesto e innocuo sorriso.

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