I Liars tornano a furor di popolo, con un nuovo, sconcertante, affresco musicale. Dopo aver giocato con la forma canzone più tradizionale possibile, traghettando i Jesus and Mary Chain nel nuovo millennio, con una semplicità  rock a tratti godibilissima ma alla lunga scontata, che pervade il disco omonimo di appena tre anni fa, il terzetto newyorchese decide di ritornare a quella forma primitiva, ancestrale, da sabba, dei loro capolavori più riusciti, “They Were Wrong so We Drowned” e “Drum’s not Dead” e lo fa nella maniera più “cinematica” possibile.

Un incubo Lynchiano, un sottofondo inquietante di pianoforti in pezzi, violini dissonanti, tube roboanti e chitarre in deflagrazione, fanno capolino qua e là  in questa nuova creatura musicale chiamata “Sisterworld”, che avrebbe fatto tremare le vene ed i polsi al peggior serial killer o assurto da degno sottofondo ad un film noir, come “Il Giorno del Falco” o film horror a sfondo psicologico come “Rosemary’s Baby”.
Un disco molto difficile, claustrofobico, di non facile accesso, ma che disvela tutta la sua sconcertante bellezza dopo ripetuti ed ossessivi ascolti. “Scissor” che apre le danze, con le sue voci salmodiate e la litania quasi funebre scandita dall’organo hammond, sembra quasi la celebrazione di un sabba o di un sacrificio umano che trasporta l’ascoltatore in una zona morta, tra veglia, sonno ed allucinazione, per poi scaraventarlo con prepotenza nelle fiamme dell’inferno, con il suo deflagrare di chitarre, basso e batteria, per poi ricondurlo nella zona primigena della creazione o della morte, a seconda dell’angolo di visuale che gli si voglia conferire.

C’è spazio anche per inquietanti iterazioni alla P.I.L., colorate da violini impazziti e chitarre in dissonanza (“Here Comes All The People”), riflessioni rumoristiche degne della migliore tradizione Can (“Drip”), di nuovo i Jesus and Mary Chain in acido (“Scarecrow On A Killer Slant”) ed infine maestosi excursus in terra Barrettiana (“I Still Can See an Outside World”) a cantare la desolazione e la disperazione di una città  come Los Angeles e le sue mille facce, la sua frenesia, la sua morte spirituale.
Ma la vera, scintillante, pietra angolare di questo disco favoloso è “Goodnight Everything”, che suona come un Morricone all’Inferno accompagnato dai Cramps: un vero e proprio incubo sonoro, capace di sconcertare anche i cuori più impavidi. Da non credere alle proprie orecchie.

Completa l’edizione speciale dell’album, un disco supplementare (“Watermarked”) di godibilissimi remix ad opera di illustri e geniali amici (Thom Yorke, Alan Vega, Blonde Redhead tra gli altri), a sancire l’ennesima riconferma di un gruppo geniale ed unico. Sabbath Bloody Sabbath.