L’orso del Canada, Sir Neil Young si schernisce quando alle domande di un intervistatore, sul fatto che il tocco che assalta la sua chitarra oramai è una zampata rabbiosa, radicale e primitiva, risponde sarcastico “….tutto è fatto per essere rotto….. Ed è proprio da prendere in parola, basta entrare nel suono di “Le Noise”, ultima fatica della sua chilometrica collana discografica, per rendersi conto che l’accoglienza non è morbida affatto e che, sempre sull’elevazione di una scrittura cattedratica, da un colpo di spugna al field melanconico delle antiche praterie per abbracciare la dottrina del rumore e un pelo nuovo da puma selvaggio.

Con la complicità  del mitico Daniel Lanoise, Young, chiuso nella sua casa di Los Angeles, da solo, senza band e con l’accordatura ferrata di un’acustica e di un’elettrica, da fuoco e passione alla sua rabbia covata da tempo negli interstizi del suo caratteraccio looner e asociale, e le braci che rimangono a sfrigolare sono queste otto tracce doloranti, di clangore volumetrico, lasciano sospese perplessità  e anche un plastico retrogusto dubbioso, di un’elettricità  da planning work troppo studiata a tavolino e confezionata per un cash poco sincero.

Lanoise di suo ci mette tutta la tecnologia mirata ad esaltare timbriche e modalità  delle sei corde, lui, il mito scontroso del grande rock sfoga, sperimenta e si ubriaca di questa sua urgenza espressionistica che si sposa o si odia senza mediazione, che potrebbe far guardare oltre i confini come fare amaramente rimpiangere il passato di ballate e trifogli sognanti in bocca.
Forse un progetto in cerca di nuovi ascoltatori, ma anche quest’improbabile e piccola salvezza non fa presa; riverberi, fuzz, delay e l’armatura coriacea di uno spirito anarchico non rendono giustizia ““ da un punto di vista d’analisi ““ a chi del suono polveroso e nicotinico dell’eroe ne ha fatto vessillo di libertà  e propedeutiche respirazioni di spazi senza dogane; questo disco tracima a dissolvere quella rudezza vera e sporca della genuinità  a favore di qualcosa di serie, artificioso e fuori memoria, inno al digitale e morte all’artigianilità , come a racchiudere una tempesta in una scatolina di plexiglas.

Voce e istinto sono preda di calcoli, livelli e led, forzati e devitalizzati da quel vero primal scream Younghiano che in anni e anni a fustigato la nostra colonna vertebrale di rockers impenitenti; una lancia di salvataggio si può avvicinare a quel piccolo isolotto acustico di “Love And War”, magari apprezzare le riflessioni di un passato “Hitchiker”, già  conosciuta in live passati o sprofondarsi nell’abrasivismo lirico di “Angry World”, ma è la distanza di un flirt rustico che porta quasi al disinteresse per un disco che ponteggia tra un solido ieri e un destabilizzante punto interrogativo di domani.

Caro Lanoise, lascia in pace il vecchio orso, è una razza protetta e al giorno d’oggi non ne nascono più di questi autentici intrattabili, meglio concentrarsi tra mille gentili del bel canto no?