I Cat Claws dovrebbero avere una funzione didattica. Il loro compito, attraverso le canzoni, sarebbe quello di indottrinare le giovani popolazioni di ‘hipsters’ sulla storia della musica indie. Quando gli anni ’90 erano nel pieno del proprio percorso, molti di questi ragazzini pallidi e ricurvi sulle proprie esili spalle e fieri della propria barbetta atta a nasconderne i tratti somatici adolescenziali, erano ancora a succhiarsi il pollice e a frignare per la poppata di metà  mattina.

Ora nelle loro camerette, tra un poster di un supereroe e una reflex costosissima che usano per fare fotografie di merda poi manipolate per farne delle polaroid digitali, dovrebbe girare ad oltranza questo “Cat Laws”, dischetto di pregevole fattura che sembra uscito direttamente dagli scantinati in cui provavano degli imberbi Sonic Youth e dei giovanissimi Pavement.

Per chi non lo sapesse, i Cat Claws sono italiani, anche se non lo dimostrano. Il disco è registrato magistralmente e in presa diretta con strumentazione vintage, alle Officine Meccaniche di Mauro Pagani. Il risultato, come accennato, è impeccabile: “Cat Laws” non è solo un semplice gioco di parole, ma un disco che pesca da molte parti i propri riferimenti facendoli propri.

Non è un mero bignami musicale dei ’90, ma un lavoro che sa anche divertire; in tal senso è indicativa la presenza in scaletta dell’inno pop scritto in occasione dei mondiali africani: “90 minutes” sa come soddisfare i palati dei teneri indieposers delle nuove generazioni e al contempo divertire gli ascoltatori più navigati. Il resto sono spigoli, melodie sghembe, passaggi sotto acido e suggestioni melliflue alternate a piacevolissime accelerazioni. Un disco che concettualmente non è nato oggi, che corre il rischio di sembrare anacronistico e, allo stesso tempo, se ne fotte.