Partiamo da un presupposto semplice semplice: Shara Worden è una delle creature più preziose dell’attuale scena alternativa al femminile statunitense. Polistrumentista talentuosa, voce sublime, conoscenze giuste, la Worden, già  autrice di due validi lavori su lunga distanza, è reduce da una lunga serie di collaborazioni (su tutte quella coi Clogs e con Sarah Kirkland Snider, ma anche il coinvolgimento nel tributo a Nico messo in piedi da John Cale e in un nuovo ciclo creativo del folle Matthew Barney) e, soprattutto, dalla sua prima gravidanza. Ora, chiunque si interessi un minimo di musica sa bene che nella stragrande maggioranza dei casi, almeno per quanto concerne le interpreti femminili, dirette interessate del fenomeno, la gravidanza è un avvenimento da temere con raro terrore. Tutte le gioie che possono portare la nascita di un figlio non possono che provocare nell’ascoltatore l’effetto opposto, obbligato a sopportare irritanti sbrodolature su quanto sia bello sfornar figli, manco fosse la prima gestazione della storia. E sembrerà  strano detto a proposito di un’artista che ha fatto della dolcezza della sua voce un marchio di fabbrica, ma tutto ciò non accade in questo disco.

“All Things Will Unwild”, la cui rapidissima composizione è principalmente frutto della ricerca di materiale inedito in occasione di un concerto in patria statunitense, affronta infatti il tema della maternità , così come le emozioni, i conflitti interiori e quant’altro attraversato dalla Worden nei tre anni che separano dall’ultimo “A Thousands Shark’s Teeth” in un grande flusso di coscienza. Musicalmente parlando, a discapito di una copertina che manco Björk sotto metadone, si può parlare di un allargamento d’orizzonti. Ritorna, ovviamente, la formula alt-orchestrale di sempre, che al solito funziona bene e valorizza i toni cristallini della cantante (la doppietta “Be Brave” e “She Does Not Brave the War” su tutte), a cui vanno a sommarsi uno sguardo entusiasta a una sorta di avant-folk per donzelle, insomma sì, una JoannaNewsomizzazione, come accade nella prima “We Added It Up”, una ballata orchestrale un po’ progressive che rischia di segnare l’apice della carriera di My Brightest Diamond, ma anche nella pur interessante “There’s A Rat”.

Al contempo l’artista racimola un piglio jazz nella coinvolgente “High Low Middle”, altro elemento di novità , mentre si torna sui soliti lidi grazie all’indie-rock da camera di “Reaching Through to the Other Side” e alla ricerca di una formula pop non convenzionale in “Ding Dang” come in “Everything Is in Line”. In chiusura, infine, la presenza di “I Have Never Loved Someone”, descrive meglio di ogni altro il talento dell’artista: il temuto brano dedicato alla nascita del primo figlio, nonostante un sample di una culla e una melodia dolcissima non stucca, non annoia, descrivendo forse meglio di ogni altro brano l’intelligenza dell’artista in questione.