Sbucato dal nulla a due anni dall’eccellente “Lungs”, senza mezzi termini uno dei migliori dischi pop del decennio appena trascorso, “Ceremonials” arriva in pompa magna sugli scaffali richiamando a se tutta l’attenzione che la rossa Welch è riuscita, forse un po’ inaspettatamente, a richiamare nel giro di un paio d’anni. Fenomeno pop non più circoscritto agli ambienti più schizzinosi della musica, nel 2011 il personaggio Florence piace e vende bene, aggrappandosi pesantemente all’immagine ormai inflazionata di artista pseudoalternativa ma pur sempre commerciabile che fa sentire più acculturati gli ascoltatori di certa-musica-commerciale e riesce a piazzarsi bene nelle classifiche senza rinunciare a una propria personalità creativa (blablabla Kate Bush blablabla Siouxsie blablabla Björk). E direi che così sono finiti i complimenti.
Andiamo subito al sodo: “Ceremonials” piacerà tantissimo a chi si era avvicinato a Florence durante il boom estivo di un anno fa di “You’ve Got The Love”, ma non per qualche particolare coincidenza astrale. Molto più semplicemente, il team di produttori che le è stato affidato, su cui spicca ingombrantemente la figura di Paul Epworth (autore tra le altre cose di buona parte dell’ultimo disco di colei che contende a Florence la fascia di reginetta del pop colto inglese, la giunonica Adele), ha seguito alla lettera la formula vincente del singolo tentando di riproporla più o meno in ogni frangente del nuovo album. “Ceremonials” ripercorre quindi il filone di “Lungs”, mantenendo intatta la ricetta del successo delle prime hit (inizio pacato, partono le percussioni, climax musicale, Florence ci dà dentro con la voce) in maniera statica, senza nessuna evoluzione, non andando a finire da nessuna parte e finendo per appesantire e annoiare l’ascoltatore. I brani risultano sfiancati già dal primo ascolto, laddove per una malriuscita emulazione di precedenti successi (“All This And Heaven Too”, lo stesso singolo “What The Water Gave Me”), altrove per una propria fiacchezza di base, neanche troppo legata ai vecchi brani (“Seven Devils”, “Never Let Me Go”).
Qualcosa si salva e s’ascolta con gusto: l’epica “Only If For A Night” in apertura e la successiva “Shake It Out”, che seppur rifacendosi molto alla prima Florence si fa apprezzare soprattutto per l’ottimo uso della voce, così come succede in “No Light, No Light”. Molto buona anche “Strangeness And Charm”, bonus track contenuta nella versione deluxe dell’album e abbondantemente proposta nel vecchio tour. Ma la vera sorpresa è “Breaking Down”, forse l’unico spunto di crescita del disco, un po’ Beach House pervasi da un’insolito brio, un po’ Arcade Fire, come a ricordarci le alte potenzialità di un’artista che ha preferito adagiarsi sugli allori.
Photo: Batiste Safont / CC BY-SA