L’anno scorso a difendere la bandiera francese sul campo di battaglia del dancefloor ci ha pensato Sebastian con “Total”. Un album che passerà  agli annali dell’enciclopedie elettronica per il suo porsi come opera a tutto tondo, volta a racchiudere in sè il meglio del meglio dei suoni e ritmi destinati alla pista. Sebastian ha realizzato un’opera completa, un punto fermo per tutto il genere, per cui d’ora in avanti sarà  difficile non prenderlo come riferimento ogni qual volta si discute di “musica da discoteca”.

Yan Wagner condivide con Sebastian i soli lineamenti somatici e la classica espressione da stronzetto francofono che la sa lunga più degli altri e non si spreca in spiegazioni. “Forty Eight Hours” è l’album di debutto del dj dopo due EP passati giustamente inosservati, “Turmoil” e “Forty Eight Hours”.
Partenza sottotono e in sordina per Wagner che si limita a suonare synth-pop senza davvero esserlo nell’animo. Gli manca sia la sfacciataggine per proporre un prodotto allegramente ruffiano sia quel po’ di sofferenza latente che agita i musicisti synth-pop, seri o autoironici che siano.

Il risultato è che quando Wagner si siede sullo sgabello per “Le Spleen De L’Officier”, inalando tra una strofa e l’altra due tiri alle centos, pare scimmiottare più un Alan Sorrenti in convalescenza per un intervento invasivo che somigliare ad un Serge Gainsbourg prestato ai party da crociera per pensionati.

A “Forty Eight Hours” manca sostanzialmente un’idea di fondo che motivi la sua ragion d’essere, ridotto ora ad un elementare elenco di motivetti anni ’80, eseguiti con scarsa verve e soprattutto poca convinzione.
Nell’attesa che il nuovo album dei Depeche Mode ribadisca che lo scettro, la corona e sedia a sdraio del synth-pop ce l’hanno sempre loro, tocca mettere da parte questo scherzo della natura partorito da Yan Wagner e tornare a concentrarsi su “Total” di Sebastian. Date fiato ai synth, ma a quelli d’origine controllata.