Non è difficile congetturare su quanto e come l’avvento improvviso della nuova fiamma serba, Ana KraÅ¡, abbia influito sulla scrittura del già  navigato Devendra: sette album alle spalle con cui ha sedotto, tra i tanti, Michael Gira. Già  il titolo, “Mala”, idiosincrasia semantica tra il corrispettivo serbo, “tenero”, e quello latino, “cattivo”, può essere interpretato come il passaggio a un approccio dicotomico nella costruzione dei suoi pezzi. Un’intimità  così divisa: lui da una parte, lui e lei dall’altra.

Lui e lei nel duetto ballato e suadente di “Your Fine Petting Duck”. Lui e lei tra le derive latineggianti di “Mi Negrita”, cui ci ha sempre abituati, e quelle più cupe e teutoniche di “Fà¼r Hildegard von Bingen”, novità  assoluta. Il folk di “Mala” non è lo stesso di sempre, è un folk meno colorato e infarcito di umori elettronici. è un folk scarno, assopito, che suona nell’angolo, che soffia su un barattolo di Budweiser lasciato vuoto, a terra, al termine di una festa, e lo spinge lungo i listoni di rovere di un parquet antico e liso. Non c’è rimasto quasi nessuno quando attacca “Mala”: il solipsismo notturno di Devendra Banhart. Una sala vuota, la luna, una chitarra con cui misurare il peso delle proprie aspettative. “Cattivo”, come una confessione, “tenero”, come una carezza.

è tutto aggrappato a un sospiro, “Mala”. Avvolto di un’intimità  condivisa, catartica e ondeggiante. Quello di Devendra non è un taglio netto col passato, ma un mischiare le carte. Una finta di corpo attorno alle proprie confuse radici. Un abbraccio a due lontano da tutti. In chiusura dell’album, “Tauroboliun” non è manco un arrivederci, piuttosto un ricominciamo daccapo. Schioccare le dita, a ritmo lento, chè tanto non c’è niente che ci spaventa.

Photo: Eggo123 / CC BY