Nota disambigua: sembra un gruppo “multipolistrumentale” della grandezza di una banda di paese eppure non sono i Radical Face ma Radical Face, al secolo Ben Cooper, l’uomo-gruppo, l’integralista che se decide di dare vita a una trilogia familiare le cui vicende si svolgono fra il 1800 e il 1910, lo fa utilizzando ““ per la gioia dei feticisti del banjo come la sottoscritta ““ solo strumenti reperibili nel periodo di ambientazione.

Compone nel capanno degli attrezzi dietro casa della madre a Jacksonville, Ben, à§a va sans dire; e già , perchè se sei un musicista tendenzialmente folk e non componi in qualche luogo abbandonato che abbia un nome rustico e legnoso non sei nessuno [vedi alla voce Justin Vernon, fuga dal mondo e cascina abbandonata in Wisconsin]. Per giunta, la leggenda vuole che Cooper si sia dato alla musica dopo aver perso due interi romanzi causa hard-disk rotto: ci sono casi in cui all’appellativo “cantautore” devi sostituire “cantastorie”, e questo è uno di quelli. Non si sta facendo dell’aneddotica di riempimento: abbiamo gli strumenti d’epoca, il capanno e le aspirazioni di scrittura creativa. Capire Ben Cooper è partire da qui.

“The Family Tree: The Branches”, il secondo capitolo della saga cooperiana dopo “The Roots”, ha un unico grande difetto: è impossibile parlarne indicando un qualsivoglia carattere di diversità  da tutto ciò che lo precede sotto il nome Radical Face. Sì, la si può ritenere coerenza musicale. A voler fare i noiosetti, però, si potrebbe anche dire ripetitività . Così, chi ha amato “Ghosts” e “The Family Tree: The Roots” ritroverà  lo stesso climax gradualmente più corale di “A Pound of Flash” nel primo estratto “Holy Branches”, il pianoforte che insegue le percussioni sempre più incalzanti come se si faticasse a contenere l’intensità  del suono, il clapping ritmato di “Welcome Home, Son in The Mute”, ogni traccia attraversata dai cori ariosi che accompagnano la voce scordata di Cooper innescando un corto circuito di contrasto fra alto-basso.

Lo si è voluto paragonare a chiunque si porti dietro l’etichetta di artista folk: la spensieratezza dei Lumineers, gli arrangiamenti di maniera dei Mumford and sons e persino la delicatezza sottovoce di Bon Iver. Nessuna di queste comparazioni centra il punto. Piuttosto, si dovrebbe dire: gli Shins che incontrano Edgar Lee Masters. Infatti, il concept di Radical Face è in comunicazione con fantasmi le cui voci ricreano una piccola “Spoon River” in misura “album dei ricordi di famiglia”. Un gioco che si consuma fra memoria, rifiuto e senso di appartenenza (I know we’re the crooked kind, but you’re crooked too, boy, and it shows), “Letters Home” indirizzate a una casa che non si può mai davvero abbandonare nè dimenticare.

C’è qualcosa di essenziale nella musica di Ben Cooper, qualcosa di naturale e autentico ““ per questo inevitabilmente banale ““ come sapere che i rami non si possono scindere dalle radici, e tuttavia sopravvivere.