Se qualcuno avesse detto, appena qualche anno fa, che in questo 2014 sarebbe uscito un nuovo album degli Afghan Whigs pochi ci avrebbero creduto. Sembrava tutto finito per la band capitanata dal pirata Greg Dulli, scioltasi amichevolmente nel 2001 (e due reunion estemporanee solo per far concerti non avevano alimentato grandi speranze) anche se i diretti interessati ancora sostengono che fosse una lunga pausa di riflessione più che una rottura vera e propria (un po’ come il divorzio della coppia Chris MartinGwyneth Paltrow che diventa conscious uncoupling). Invece è tutto vero: “Do To The Beast” è il primo disco del nuovo millennio per gli Afghan Whigs, sedici anni dopo “1965”. Un ritorno di rara poesia e intensità .

Registrato tra New Orleans, Los Angeles, la natia Cincinnati e Joshua Tree, “Do To The Beast” (battezzato così da Manuel Agnelli degli Afterhours) riconsegna al mondo della musica una band in ottima forma. Sono gli stessi di “Gentleman”, “Congregation” e “Black Love”? No e sarebbe assurdo pretenderlo. Avrebbero potuto continuare a suonare felicemente quegli album, invece hanno deciso di cambiare. Sorprendere, confondere, reinventarsi, come del resto hanno sempre fatto. Uscito dal gruppo Rick McCollum, alla chitarra si sono alternati Dave Rosser, Jon Skibic e Mark McGuire. Decine di ospiti hanno partecipato al disco, tra cui la leggenda del soul Van Hunt che presta il suo squillante falsetto alla maestosa “It Kills”in duetto con Dulli, Alain Johannes, Clay Tarver, Dave Catching, Patrick Keeler e Joseph Arthur.

Collaborazioni o meno, l’anima dei Whigs c’è ancora. Quella miscela di storie da brivido, rock sanguigno, soul muscolare, funk noir, rabbia repressa, sentimenti vissuti pericolosamente, sexy perversioni che rendevano le loro canzoni tanti piccoli frutti proibiti da gustare golosamente. E c’è molto da assaporare, molto da vivere in “Do To The Beast”, un album in cui si sente l’influenza del passato ma anche di tutto quello che Dulli ha fatto nel frattempo con i Gutter Twins e i Twilight Singers. Inizio trascinante con una “Parked Outside” che fa da ponte tra quello che i Whigs erano e quello che sono oggi, poi le cupe confessioni a cuore aperto di “Algiers” e “Lost In The Woods”, “The Lottery” e “Can Rova”, le verità  nascoste di “I Am Fire” che sorprende per l’uso delle percussioni, il crescendo di “Royal Cream”. E la voce di Dulli, uno dei pochi musicisti in grado di scrivere testi all’altezza di sua maestà  Nick Cave, che s’impadronisce di ogni pezzo cantando con passione di amore tormentato (“Matamoros”, “It Kills”) e vendetta (“These Sticks”).

Parlando di “Do To The Beast” Greg Dulli ha rivelato che queste canzoni per lui hanno una forte componente visuale ed ha perfettamente ragione. Gli Afghan Whigs hanno creato dieci piccoli film in musica. Film d’autore da rivedere mille volte. Un nuovo inizio per una band, che ormai più che band è un collettivo di musicisti, di cui tanti sentivano la mancanza. Un inizio esilarante, spaventoso come l’ha definito lo storico bassista John Curley. Incredibilmente coinvolgente e emozionante, di quelli che non si scordano in fretta.

Credit Foto: Piper Ferguson