Li avevamo lasciati mentre accarezzavano i successi di “Big TV”, concept album tutto amore e gioventù. Ce li ritroviamo al cospetto,  White Lies,  ancora sulla scena –  dopo un cambio di etichetta e la firma mainstream con BMG – con un nuovo disco di inediti, il quarto in carriera,  “Friends”. Titolo non troppo emblematico, questo, ma che in sè spiega l’essenza delle 10 tracce in esso contenute. Brani amichevoli, tutti potenziali singoli, se presi singolarmente. Ma che, a conti fatti, non riescono a replicare la consistenza del predecessore, nè tanto meno ad avvicinarsi alla freschezza e creatività  dei primi due album di questa band, che a cavallo tra il 2009 e il 2011 se ne uscì con una collana di perle di quel post-punk ammiccante che tanto piace(va) al pubblico d’oltre Manica.

Peccato, perchè il passaggio a una major pur nascondendo il possibile rischio di un cambio di rotta in termini di sonorità , lasciava comunque presagire una certa, maggiore accuratezza di contenuti. Ingredienti che in “Friends” non emergono, annacquati in un prodotto confezionato al meglio, ma che manca di spina dorsale. Prendete le liriche, ad esempio. L’abilità  vocale di Harry McVeigh (voce e chitarre) non è mai in discussione, sebbene questo disco ruoti sempre e solo attorno a certe tematiche. L’amicizia che evolve, quella che cambia i propri connotati nel tempo, muovendosi verso un’età  adulta in cui subentra una maggiore consapevolezza. Di sè stessi e di ciò che vi ruota attorno. Poi le stagioni, e una trita (e ritrita) metafora dell’estate come elemento separatore tra l’idealismo e una maturità  se vogliamo più cinica. Tutto bello, ma, una domanda sorge spontanea: dove si vuole andare a parare?

Chitarre e synth sono gli attori protagonisti. Dalla opening track “Take It Out Of Me” (forse l’episodio migliore dell’intero LP) ai singoloni “Morning in LA” e “Hold Back Your Love” si arriva alla semi-ballata “I Don’t Wanna Feel At All”. Si comprende dopo una manciata di minuti che l’aria che tira su questo “Friends” non è delle più frizzanti. E’ un po’ stantia, al contrario, in un processo che per White Lies sembra coincidere con una quasi involuzione rispetto al passato. Senza contare la già  menzionata condizione di scarsa ispirazione, in cui il trio sembra versare in maniera abbastanza irreversibile. “Summer Didn’t Change A Thing” prova a sparigliare le carte sul tavolo, ma al di là  delle buone intenzioni, la sostanza è minima.

Rimane poco, allora, di un album in cui crediamo la voce di McVeigh sia ancora la cosa migliore, seppur in un contesto appannato e non all’altezza delle aspettative. L’impressione che se ne ricava è di una band intenta a cambiare il proprio processo creativo, ma non in grado di giungere a un punto. Ed è questo che più dispiace, perchè il compitino va bene, ma non è ciò che si addice a una band di un certo spessore – acquisito a pieno titolo nel tempo – quale White Lies.