Conor Oberst, 36 anni all’anagrafe, non è mai stato banale. E’ quel magico elemento che rappresenta il valore aggiunto, la qualità , la fantasia e la raffinatezza musicale. Anche, e soprattutto in un album quale “Ruminations”. E ci  scuserete, se abbiamo perso il conto del “disco numero…”  a cui siamo giunti, tanto ricca è ad oggi la discografia di un musicista che in un ventennio di carriera ha collezionato successi e inanellato perle di inestimabile valore.

A  quanto pare bastano tre ingredienti, per comporre un disco: chitarra acustica, pianoforte, armonica. Sforzo vano, tuttavia,  se a mancare è quella chimica che mette insieme i vari frammenti  e li rende un tutt’uno. “Ruminations”  conferma a pieno titolo quanto detto poco più sopra. Ricordiamo Oberst in sella al pluridecorato progetto Bright Eyes. Abbiamo quindi imparato ad apprezzarlo sotto una veste più intima,  una volta smessi i panni del frontman e imbracciata l’acustica in svariati progetti solisti. Conor  è un fiume in piena, lo è sempre stato, protagonista di una non meglio identificata musica d’autore che ““ ogni volta ““ ci fa sbarrare gli occhi e trattenere il respiro.

Non fa difetto “Ruminations”  che, come detto in apertura, vive di atmosfere acustiche e di una delicatezza emozionale tale da renderlo un disco triste e spensierato nel contempo. Oberst apre le porte della propria anima in un piccolo viaggio in punta di piedi, tra melodie di rara bellezza e allegorie disseminate qua e là . La densità  di qualità  emerge a pieno titolo già  dopo pochi secondi, con il levare di “Tachycardia” che alterna pianoforte e armonica. Ricorda vagamente il bagaglio di paesaggi sonori  contenuto nei suoi capolavori di sempre, quel “Digita Ash in a Digital Urn” oppure “I’m Wide Awake, It’s Morning”, forse il più celebre tra i suoi lavori in studio di oltre un decennio fa (entrambi firmati Bright Eyes).

La potenza di questo disco si dispiega quasi sottovoce, in un contesto che vive della malinconia di “Barbary Coast (Later)” e delle tinte tristi di “Counting Sheep”, in cui Oberst traccia dapprima un realistico ritratto di una notte insonne, per poi dispiegare una serie di immagini oscure e sinistre, dalla morte di due bambini al criptico punto in cui sussurra “gun in my mouth, trying to sleep, everything ends, everything has to”.

“Mama Borthwick (A Sketch)” rappresenta quindi la vetta, il raggiungimento di un punto di non ritorno che nel contesto del disco rappresenta, a nostro modo di vedere, un momento focale. Oberst suona e canta dell’esitazione, del costruire qualcosa di sacro. Il tutto in una dedica personale a Martha Borthwick, compagna di Frank Lloyd Writght, assassinata nel 1914 in maniera raccapricciante. L’intricata serie di pensieri aggrovigliati in “Ruminations” emerge negli altri episodi dell’album. “The Rain Follows the Plow”, ma anche “Next of Kin” offrono un ulteriore spaccato di quel che Oberst vuole trasmettere con questo disco composto durante un’invernata trascorsa nel cuore desolato del Nebraska.

L’ultima menzione spetta alla meno lineare delle canzoni contenute in “Ruminations”. “You All Loved Him Once” è un racconto di portata vagamente autobiografica, in cui Oberst sembra parlare di qualcuno che ha ottenuto tanto, forse troppo successo. Nel finale, ecco l’amara verità : “The more and more was put on him, he tried his best to take it on… You all loved him once, now he is gone”.

C’è giusto il tempo di rimettersi la giacca, spostarsi nel più vicino pub nell’East Village a cercare un amico con cui bere fino a essere sbattuti fuori (“Till St. Dymphna Kicks Us Out”). Oppure si può  ricominciare tutto daccapo, perchè “Ruminations” è uno di quei dischi da ascoltare e riascoltare, se non per la bellezza intrinseca della sua musica, per il fragile equilibrio sul quale poggiano  le parole che lo raccontano. Conor Oberst è Conor Oberst, un menestrello che accarezza note e parole come farebbe con le proprie emozioni.