Emptyset, il progetto di James Ginzburg e Paul Purgas, porta avanti da anni la via tracciata dai Pan Sonic, cesellando un processo creativo che modella techno, elettronica minimale, industrial e noise. Dopo gli esordi di “Future Days” e “Demiurge”, l’approccio del due britannico è convogliato più verso le composizioni da sound designer, con riverberi, feedback e un’architettura sonora che però non si è mai convogliata troppo all’arte del suono concettuale che spesso viene considerato questa branchia dell’elettronica elettronica. Non è il caso però di “Borders”.

Il loro quinto disco e il primo per la Thrill Jockey, è un lavoro crudo, molto aggressivo e abbastanza inedito rispetto alle precedenti produzioni di Ginzburg e Purgas. Il corpo pulsante che scandisce tutto il sound del disco, a cominciare dal pezzo di apertura “Body”, è composta da uno zither “modificato”, che insieme all’incedere di un tamburo, caratterizza tutte le tracce di “Borders”. Solo il brano che chiude il lavoro “Dissolve” sembra altro rispetto agli altri brani, dove una sorgente sonora non identificabile assume il carattere di delicate chitarre, da sembrare quasi un blues post industrial. Anche i pattern rimango spesso gli stessi, dando un effetto claustrofobico e straniante che si ripete traccia dopo traccia.

“Borders” lascia intuire che il duo voglia dare al disco una sorta di valore meditativo insieme a un senso di fisicità  spazio temporale per comunicare all’ascoltatore una sensazione di vuoto. Il loro sembra quasi una sorta di noise alla Sightings in versione elettronica e nella sua ripetitività  rimanda anche allo stile dei primi Swans, anche se la scuola Pan Sonic in “Borders” non è stata sicuramente accantonata. La ripetitività  dello stile di Emptyset richiede un’ascolto allenato e potrebbe essere molto apprezzato da chi mastica dubstep o la techno più berlinese che di Detroit. Emptyset mettono in atto uno schema sonoro molto chiaro e schematico ma tuttavia non riesce ad essere così coinvolgente come vorrebbe, e la mezzora di durata di “Borders” ci lasciano, anche dopo più ascolti, un senso di incompiutezza.