Non sapevo molto, anzi nulla di questo disco quando ho scelto di recensirlo. Il nome Zu e la suggestione del titolo e della copertina erano state sufficienti per allettarmi.

Conoscendo la loro prolifica creatività , mi aspettavo cose del tutto nuove e mi ha stupito leggere, su due tracce (due lunghe suites), un titolo già  familiare.
“A sky burial” è in effetti già  presente, almeno come nome, in Cortar todo, dove corrisponde a una traccia che come lunghezza e “ascoltabilità ” (per essere un brano degli Zu) risulta anche abbastanza radiofonico, apparentemente addomesticabile più di altri. Ma i “cuccioli” accolti in casa a volte crescono ben oltre le aspettative, e magari si rivelano di una specie tutt’altro che domestica.
Il brano (il cui titolo richiama crudi ma affascinanti riti tibetani) qui non dura più 7 ma 22 minuti, diventa monumentale. Non sembra in realtà  avere più nulla a che fare col precedente, che aveva una robusta ossatura ritmica e percussiva.

Qui più che un ritmo ben scandito e sezionato c’è un continuum, ci sono stringhe sinuose. E’ un universo che si stiracchia, e per noi povere formichine c’è da augurarsi solo che non si gratti o non starnutisca.
La sua rarefazione ti fa perdere negli spazi delle possibilità , dove le parole “storia”, “fine”, e perfino “destino”, sembrano troppo limitate per poterne scegliere una, a scapito di tutte le altre.

Distribuiti in tutto l’album, antichi strumenti (numerose collaborazioni introducono sonorità  inusuali per gli Zu) riportano melodie dal sapore arcaico, che come sgorgati da rocce rimaste immobili per milioni di anni, rotolano sopra tuoni di energia.

In più momenti sia della prima che della seconda parte un epos, un racconto, è portato dal suono degli strumenti a corda, (oltre alla chitarra e basso di Massimo Pupillo, il koto di Michiyo Yagi) come la presenza umana che introduce il tempo, riempiendo di desideri il timore della morte.
Ma questo puà  avvenire solo per brevi tratti, questo tentativo di tracciare una storia (“La” Storia?) che presto si deve arrendere alla ciclicità  della vita e insieme ad essa alla morte come parte di essa.

Quello che non è immediato da cogliere, a cui è difficile trovarsi subito preparati e recettivi, e che mi ha reso necessari numerosi ascolti e anche qualche spiegazione alla fonte, è che questo album sembra parlare proprio del superamento dell’occidente (specie in quanto identificazione dentro ciascuno di noi) e soprattutto della sua rimozione della morte e della ciclicità  della vita, in favore di nuove e più ampie consapevolezze.

La suite in cui consiste il lato B, “The Dawning Moon of the Mind” (che si rifà  invece a mitologie egizie) si dibatte tra forme classiche di arpeggi e disarmonie naturali più fluide ed inafferrabili, le prime temporanee ed umane, le seconde più simili a un codice eterno dell’universo fisico.
Come cercando di dialogare con le seconde, le corde rinunciano man mano alle forme idealizzate e antropizzate per immergersi totalmente in quello che alla fine sembra un caos primordiale che esplode.
Tornato a placarsi emergono i fiati come un respiro profondo, che poi raggiunti dagli altri strumenti sembrano sancire la nascita di un nuovo universo,
forse quello che avverrà  ciclicamente e all’infinito.

Anche se con cambiamenti di approccio e di sonorità  (tra l’altro sorprendente non trovare il sax di Luca T Mai, dedito qui a voci ed elettronica), come sempre da quando ascolto gli Zu quello che mi capita è che quelli che potrebbero apparire razionalmente suoni giustapposti anche disarmonicamente e spesso sul limite del caos, acquistano come per intrinseca energia un corpo e un senso, come un alfabeto, ma non concordato per convenzione, un alfabeto che deve essere quindi preesistente, forse ancestrale e per questo fa rabbrividire le radici dell’inconscio.

Come riescano ad attingere a questo, con quale processo creativo, è il mistero e la meraviglia con cui ogni volta mi godo la loro musica ormai da decenni.

Musicisti e ospiti in ordine di apparizione:
Tomas Jarmir – Drums, Cymbals
Lorenzo Stecconi – Granular Synth
Stefano Michelotti – Hurdy-Gurdy
Massimo Farjon Pupillo – Bass, Guitar, Piano, Synth
Luca T Mai – Electronics, Vocals
Kristofer Lo – Amplified Tuba, Flugabone
Stefano Pilia – Guitar, Cello
Michiyo Yagi – electric 21 – string koto, 17-string bass koto, electronics
David Chalmini – Analogue Synth
Andreas Elvenes – Vocals
Jessica Moss – Violin, Vocals