Una volta un tizio, sbagliando non poco, mi disse che i Mount Kimbie con la musica indie non c’entravano una mazza.   Mai definizione fu più banale e superficiale. Soprattutto quando si parla di un gruppo, appunto, come i Mount Kimbie, e di un filone, come quello ‘post-dubstep’, che ha dato luce a progetti, contaminazioni e percorsi che hanno influenzato e caratterizzato il modo di fare musica indie e alternativa in questi ultimi anni.

Il duo di Londra dal 2010 ha prodotto tre album, uno molto diverso dall’altro, senza però abbandonare le proprie origini e soprattutto senza mai mettere in atto pietose operazioni di trasformismo atte a rendere il proprio prodotto più appetibile dal punto di vista commerciale. Il primo di questi è il capolavoro “Crooks and Lovers”, il turning point della musica elettronica, l’album definitivo, la pietra miliare di questo genere musicale. Con” Cold Spring Fault Less Youth” si ha un passaggio, ma che dico, uno scarto netto ed evidente che porta il duo a diventare una vera e propria band, con tanto di strumenti e arrangiamenti, e ad imbattersi nel territorio ancora inesplorato delle contaminazioni più disparate e del crossover. Oggi con “Love What Survives” la formula si consolida e cristallizza in una forma più coesa ma ricca di sfaccettature. Il featuring in questo modo non è più solo una maniera di varcare soglie prima sconosciute ma diventa un rito, una opportunità  di arricchimento per l’ascoltatore, non più un surplus bensì una necessità  che diventa virtù. Ma non fraintendetemi, il marchio di fabbrica rimane sempre quello, eccelso soprattutto in pezzi come “Audition” o l’incredibile “T.A.M.E.D (thinka bout me every day)” col suo ritornello ipnotico.

Qui però le influenze sono altrettanto importanti e variegate, il ventaglio di possibilità  che il disco sa offrire è quasi infinito e mette bene in evidenza il processo creativo necessario per arrivare a tanto. Stiamo parlando di un album di sostanza, ricco di personalità  ma altrettanto variegato: si va infatti dal garage rock di “You look Certain (i’mnot so sure)” con la poliedrica Andrea Balency, alle irresistibili percussioni di “Marylin” con Micachu, una delle artiste più interessanti e promettenti della scena indie. Per approdare poi alla vera ciliegina sulla torta, ovvero la collaborazione con James Blake, il mentore prodigioso di tutto il filone post dubstep, quello che per molti è l’erede legittimo di Burial e che ha saputo portare la musica elettronica su altri alti livelli rendendolo un genere che oggi come oggi ripercorre tutto il repertorio strumentale sapendo anche emozionare.

Le ciliegine in realtà  sono due, la spumeggiante e funkeggiante “We go home Together” e la bellissima “How we got By”, una straziante ballata col solito duo piano-drums di James Blake che abbiamo imparato ad apprezzare e amare. Infine una menzione speciale e a parte la merita “Blue Train Lines”, il featuring di King Krule. Non solo per l’intensità  e la bellezza del brano ma soprattutto per la sua importanza. King Krule altri non è che Archy Ivan Marshall, considerato un po’ la creatura più anomala e strana della scena contemporanea: infanzia travagliata, disturbi mentali, personaggio molto controverso”…insomma gli ingredienti giusti per un mix esplosivo che ha saputo, almeno inizialmente, trovare nella musica una valvola di sfogo e di creatività , una sorta di scappatoia e via di uscita. Per evitare che ripiombasse nell’oscurità  dell’anonimato, i Mount Kimbie lo hanno reclutato con questo incredibile singolo. Il pezzo è caratterizzato dall’inconfondibile spoken word di King Krule, aggressivo sregolato e disarticolato ma potente ed efficace col suo sound che colpisce e conquista per i continui cambi di ritmo.

Beat incalzanti e cupi al punto giusto, brani che energizzano alla grande, tanti tanti promettenti vocalist e influssi continui rendono “Love What Survives” sicuramente uno dei migliori album di questo 2017. E, per il sottoscritto, una dipendenza che non ha mai fine.