Reprimere la rabbia troppo a lungo è un’abitudine dannosa e inutile. Sarà  per questo che per “Material Control” ““ primo full-length dai tempi del bellissimo “Worship and Tribute” del 2002 ““ i Glassjaw di Daryl Palumbo e Justin Beck hanno deciso di sfogarsi dando vita alla prova più aggressiva e abrasiva della loro carriera. I due musicisti di New York hanno lasciato il loro post-hardcore a bollire nel brodo di tensioni e rancori per più di quindici anni, fino a quando la pressione non è arrivata a livelli talmente elevati da far saltare tutto in aria. Una ruvida e spoglia ripartenza da zero: gli elementi emo, nu metal e progressive che in passato avevano reso la loro ricetta particolarmente ricca e degna di attenzione sono pressochè spariti, sostituiti da una visione che lo stesso Palumbo ha definito “post-apocalittica”.

“Material Control” recupera solo in minima parte i tratti sperimentali di “Worship and Tribute” e dei due più recenti EP – “Our Color Green (The Singles)” e “Coloring Book” del 2011 ““ per presentarci i Glassjaw nella loro veste più grezza e hardcore. La voce di Daryl Palumbo, un particolarissimo incrocio tra il timbro di Perry Farrell dei Jane’s Addiction e la versatilità  di Chino Moreno dei Deftones, viene lasciata in secondo piano rispetto alle parti strumentali. Melodie e atmosfere vengono soffocate da una produzione minimale e “primitiva” che pone l’accento sulla esplosiva performance di Bill Rymer dei Dillinger Escape Plan alla batteria. Il polistrumentista Justin Beck si conferma per l’ennesima volta la mente pensante del progetto, firmando la musica dei dodici brani in scaletta e registrando ogni singola traccia di basso e chitarra.

è proprio il lavoro rumoroso e “schizofrenico” di Beck a conferire tanta aggressività  a “Material Control”: chi aveva apprezzato la ricchezza stilistica e la sensibilità  quasi pop di alcuni episodi di “Everything You Ever Wanted To Know About Silence” e “Worship and Tribute” resterà  deluso dalla furia cieca e intransigente delle nuove composizioni che, a tratti, tende a eliminare le sfumature e l’elasticità  tipiche della musica dei Glassjaw. La voglia di sperimentare e mettersi alla prova è ancora viva e vegeta ma emerge solo nella ballata dub “Strange Hours” e nelle percussioni etniche della strumentale “Bastille Day”; il resto del lavoro, pur restando sempre ancorato a un pesantissimo e ultra-moderno post-hardcore di scuola newyorchese, sfocia in più di qualche caso nel metalcore (“New White Extremity”, “Golgotha”), nel noise (“Pompeii”, “Citizen”) e addirittura nel più complesso mathcore (“Bibleland 6”, “Closer”).

“Material Control” è un album che sa farsi apprezzare già  dai primi ascolti e non deluderà  gli amanti del genere. Tuttavia, rappresenta un piccolo passo indietro per i Glassjaw che, nonostante discontinuità  e lunghissimi silenzi, nel corso degli anni sono riusciti ad attirare una folta schiera di fan con una proposta musicale ben più ricca, variegata e ispirata di questa.