Una disciplina di ferro. Jack White è riuscito a costruirsi una carriera di enorme successo seguendo sempre in maniera meticolosa una serie di regole ben precise: dall’ossessione per i colori dei vestiti e delle copertine degli album che lo perseguita dai tempi d’oro dei White Stripes, passando per le tecniche di registrazione e la strumentazione rigorosamente vintage, nulla è mai stato lasciato al caso. Impossibile tuttavia presentarlo come un artista abitudinario, o ancor peggio ripetitivo; nel corso di vent’anni di attività , il songwriter di Detroit ha esplorato davvero tutti i campi della grande tradizione americana ““ dal blues al garage, e ancora dall’hard rock al country ““ e in qualche caso ha lasciato addirittura segni indelebili. Più giusto forse descriverlo come l’ultimo dei romantici, affezionato a un’idea di musica tanto antica (o folkloristica) quanto affascinante, che lui meglio di tanti altri è riuscito a calare in un contesto moderno. Non è un caso, quindi, che ci sia il suo zampino dietro la prima vera canzone popolare del nuovo millennio: tutto il mondo conosce il popopopo-po-poo-poo di “Seven Nation Army”, ma in quanti sanno chi l’ha scritto?

Considerando tali premesse, è impossibile non restare spiazzati dopo aver ascoltato questo nuovo “Boarding House Reach”, terzo album solista di Jack White. D’altronde, c’era da aspettarsi qualcosa di particolare per l’occasione: tra le sue innumerevoli fissazioni c’è proprio quella per il numero tre. Tre come gli elementi alla base della musica dei White Stripes (voce, chitarra e batteria), o come i colori utilizzati dall’ex duo per promuovere la propria immagine (bianco, rosso e nero). Il simbolo essenziale della totalità , nel quale però il Jack White del 2018 sembra non rispecchiarsi più di tanto. “Boarding House Reach” è infatti un lavoro complesso, ambizioso e sperimentale; molto lontano da quanto fatto in precedenza in solitudine o con altri progetti (The Raconteurs e The Dead Weather, oltre naturalmente ai White Stripes). Dopo aver tolto il bando a “diavolerie” moderne come Pro Tools, drum machine e vocoder, le care vecchie regole sono crollate come un castello di carte: in “Boarding House Reach” domina l’anarchia.

I sintetizzatori (naturalmente sempre analogici) rubano la scena alla chitarra e diventano la struttura portante del nuovo sound di Jack White, più ricco rispetto al passato ma ancora acerbo sotto molti aspetti. Il soul alla Otis Redding di “Connected By Love”, il country di “What’s Done Is Done” e il blues cupo di “Why Walk A Dog?” si fondono con l’elettronica in maniera raffinata ma senza troppe sorprese; le novità  più interessanti si nascondono invece in brani come “Corporation”, “Ice Station Zebra” e “Get In The Mind Shaft”, allucinanti jam dal gusto funk e hip hop in cui un mai così stravagante White frantuma e reinventa spunti presi in prestito da Stevie Wonder, George Clinton e Prince. Una formula simile ma leggermente più vicina all’hard rock del passato – che qui trova grande spazio solo nella cavalcata elettrica “Over And Over And Over” – è presente anche in “Hypermisophoniac” e “Respect Commander”, tuttavia con risultati molto meno convincenti. Se “Abulia And Akrasia” (alla voce c’è il bluesman australiano C.W. Stoneking), “Everything You’ve Ever Learned”  e “Ezmeralda Steals The Show” sono tre brevi intermezzi che non aggiungono davvero nulla al disco, la conclusiva “Humoresque” merita attenzione soprattutto per la sua particolarissima storia: si tratta di una rilettura in chiave jazz di un’opera del compositore ceco Antonà­n DvoÅ™ák il cui testo, scritto da Al Capone durante gli anni di prigionia ad Alcatraz, mostra un inaspettato lato sdolcinato dello spietato gangster statunitense (Over the air, you gently float/Into my soul, you strike a note/Of passion with your melody).

Il Jack White  “indisciplinato”  di  “Boarding House Reach”  ha voglia di rinnovarsi e sperimentare, ma in più di qualche brano tende a strafare e si lascia travolgere dalla confusione. Per il momento siamo ancora in una piacevole fase di transizione.

Photo: Bill Ebbesen / CC BY-SA