Tale padre tale figlio, si suol dire. Oppure buon sangue non mente, visto che in questo caso i soggetti padre-figlio andrebbero invertiti: Charles “Chuck” Auerbach altro non è infatti che il padre classe 1950  del celeberrimo Dan, conosciuto dai più per essere il frontman dei Black Keys.

Che dietro a tutta la faccenda ci sia lo zampino di Dan Auerbach è lapalissiano: che per questa ragione il risultato sarebbe dovuto essere giocoforza positivo, non era invece affatto scontato, nonostante infatti un supporto strumentale d’eccezione ( lo stesso Dan Auerbach, Kenny Vaughan e Dave Roe, per citarne alcuni) la composizione è tutta farina del sacco del “vecchio” Chuck.

Il prodotto è però valido, eccome: uno storytelling in prima persona elegante, placido ma dai motivi raffinati, cucito intorno a temi ed emozioni essenziali, misurati, ma puri come l’argento, di fede e di sentimento; la voce roca e tiepida di Chuck Auerbach accompagna rassicurante i brani – egregiamente arrangiati pur nella loro semplicità  strutturale –  più cantautorali  (la dolce “Sylvie” o  la malinconica “Long  Time to Be Lonely”), come quelli più cupi e crudi (“Desperation”  sembra uscita da un  Roadhouse di matrice lynchiana)  o maggiormente bluegrass (“If You Left Me”).

Passione ed emozioni che sublimano in “My Old Man” unico, a detta dell’autore, pezzo autobiografico rivolto al padre (a cui è dedicata anche la copertina dell’album, che raffigura una piastrina che questi regalò alla moglie prima di partire per la Seconda Guerra Mondiale).

Un lavoro di spessore ed al contempo intimo, che vogliamo etichettare così: una dedica, un omaggio ed un testamento a tutti i carneadi del blues, del folk, del country di ogni età  che, seppur dotati di talento ed ispirazione, non hanno o non avranno mai la possibilità  di fare uscire la loro voce e le loro note dalle pareti di legno di un qualche locale sparso per il mondo.