Li avevamo lasciati cinque mesi fa scrivendo del loro secondo album “Songs from the Land of Nod”, l’album che li ha fatti conoscere fuori i confini della Grande Mela. Il tempo di vederli in giro per il tour che ha toccato anche il nostro continente ed i tre nostri ormai ex “bad boys” ci presentano il loro terzo album “Inside The Flesh Hotel”.
Gordon Lawrence (voce e chitarra), Isa Tineo (batteria, voce) e Sid Simons (basso) sfruttano questo momento particolarmente creativo per rilanciare con queste dodici canzoni che, come nel precedente lavoro, profumano dannatamente di rock anni 70 con tocchi di psichedelia tardi anni 60.

L’ open track “Flesh Hotel” è uno psych-pop che apre le danze con decisa accelerazione nel finale ( danze di quelle che ti ritrovi con i lividi sulle braccia ), “Amy” è una dolce ballata pop con coretti in stile Beatles, piano, banjo   e chitarre miagolanti.
“Bigot in My Bedroom”, singolo uscito lo scorso maggio, è uno dei rari pezzi che trattano di politica scritto dai New Yorkers. Il pezzo, cantato da Simons, è l’ennesimo lamento – in stile glam – di un America che non si riconosce nell’attuale leadership : “Look what you’ve done to this nation, you got us tangled up in all of your lies”. Glam rock pure in “Sucker” mentre la strumentale “Nero” è sfacciatamente ispirata agli Stooges o, per non allontanarci troppo, l’Iggy Pop di Lust of Life, lo stupendo pezzo che apre la colonna sonora di Trainspotting.
Quale canzone potrebbe meglio rappresentare un saliscendi se non “Up and Down”, un gioiello psichedelico molto probabilmente scritto dai fab four nel 65 dopo una scorrazzata nella East London intorno alle tre del mattino sulla gialla ( si fa per dire ) Phantom V di John.   Non prendetemi troppo sul serio, a volte mi piace viaggiare con la fantasia ma questo è davvero un album tosto, non possiamo   che sciogliere le briglie e lasciar viaggiare la mente.
Poi ascoltiamoci “The Ram” e ditemi se  quello che canta non è George Harrison.
Lawrence ha decisamente migliorato la qualità  della sua voce, sorniona a volte apatica ma molto più espressiva rispetto a come l’avevamo ascoltata pochi mesi fa.
Dopo la triste serenata d’amore “I Don’t Blame You Anymore” sussurata da un delirante Gordon accompagnato dal piano, “Our Love Was Worth the Haertache” è il pezzo slow country che chiude il disco. Beh, dopo il Merseybeat un pochino di Stones ( quelle rotolanti ) bisognava metterceli.

Beechwood: tre ragazzi che sono cresciuti mentre in città  gli Strokes dettavano legge. Hanno assorbito quelle energie che hanno radici più profonde – mi viene da pensare ai New York Dolls ed ai Television– e le stanno sapientemente mischiando con suoni provenienti dalla vecchia Inghilterra.
Il risultato? Non lo so, il disco non ha di certo un filo conduttore ma questo non lo vedo come un punto debole. La band è sicuramente in un periodo di evoluzione. Li abbiamo scoperti anche nel loro lato pop melodico che non ci dispiace affatto.
“Mettete su il disco”, salite sulla vostra Rolls gialla ( si fa per dire ), lasciatevi Londra alle spalle e girate per New York questa volta, forse incontrerete tre ragazzi che amano farsi fotografare in strade secondarie con l’aria da duri, perchè loro in fondo, dei duri lo sono davvero.