“Green Book” si conclude con l’arrivo di Don Shirley a casa di Tony Vallelonga per il cenone di Natale. I due sono sfiniti da un lunghissimo viaggio di ritorno, a New York dal profondo sud degli States, dove Tony ha fatto da autista al tour di Don (pianista jazz di colore) nell’epicentro dell’america razzista di inizio anni ’60.
Il tour non è andato liscio, una data importante è saltata e quindi Tony non riceverà  il pagamento promesso, ragione per la quale si era lontanato dalla sua famiglia per tre lunghi mesi. Ma poco importa, le barriere che i due abbattono durante questo viaggio (il razzismo congenito di Tony, la sfiducia lacerante di Don) e l’amicizia costruita scontro dopo scontro, battuta dopo battuta, vangono più di ogni paga.

Poco importa anche che vi abbia svelato il finale di “Green Book”, la storia raccontata, piuttosto lineare e praticamente riassunta dal trailer, è quanto di meno importante il film abbia da dare. I motivi per cui la prima pellicola di Peter Farrely senza il fratello va vista sono molteplici. In primis la dolcezza in cui viene fatta emergere la grettezza delle leggi razziali e delle autorità  dell’epoca. Poi c’è l’incommensurabile bellezza della natura soleggiata dei vari Kentucky, Alabama, Louisiana, attraversati dal lungo itinerario del Don Shirley Trio.
Ma soprattutto c’è l’alchimia comica della coppia Mortensen-Ali, interpreti di uno script irresistibile e dal ritmo serratissimo. Peraltro Mortensen, in un ruolo dannatamente e ineditamente comico, battuto agli Oscar da Mr Robot coi dentoni grida vendetta.