Black Mirror, nella sua quinta stagione, ha rivolto altrove il suo sguardo: non più i meandri più oscuri ed impenetrabili dei futuri più terrificanti a cui avrebbe potuto condurci un utilizzo malato della tecnologia, ma il più rassicurante, prevedibile e noto presente. Ciò ha, ovviamente, impoverito i tre episodi proposti. Più che dinanzi ad uno specchio nero dietro il quale si nascondono le ombre minacciose che bramano di prendere il controllo dell’umanità , ci troviamo dinanzi ad una versione ampiamente annacquata e tutto sommato innocua della nostra realtà .

Non saranno certo i social media, così come sono oggi, o i giochi che fanno largo uso della realtà  virtuale, o le ben conosciute dinamiche economiche dello show business, a condurci verso la fine. Abbiamo problematiche ben più imminenti e ben più gravi: basti pensare all’inquinamento globale del pianeta; all’alterazione imprevedibile del clima; ai conflitti etnici e religiosi che, spesso, nascondono guerre per il controllo di fondamentali ricchezze naturali.

Black Mirror era nata per intercettare le potenziali strade più pericolose in cui avrebbe potuto incamminarsi l’uomo tecnologico e metterlo, di conseguenza, in guardia. Ma nella quinta stagione questo obiettivo è scomparso, perchè manca quello sforzo di immaginazione, coinvolgimento emotivo, allo stesso tempo fantasioso, scientifico e tecnico, che avrebbe consentito agli autori di aprire la finestra della propria mente ad un ipotetico e distopico mondo futuro. Black Mirror, in molti dei suoi più riusciti episodi del passato, era stata in grado di fare propria la lezione delle più celebri opere distopiche di autori quali George Orwell, Alan Moore o William Gibson, e condurre il pubblico a toccare con mano potenziali e sconvolgenti futuri. Futuri in cui persino l’arte, la musica e la letteratura venivano completamente soggiogate al tecno-potere dominante di turno.

Nei tre episodi proposti, invece, l’orizzonte degli eventi è molto più vicino: due uomini arrivano, a causa di un gioco di lotta virtuale, una sorta di Street Fighter, a dubitare del proprio orientamento sessuale; un uomo, reo di aver causato la morte della sua fidanzata, mentre era al volante della propria auto e cercava contemporaneamente di leggere una notifica sul suo social network preferito, distrutto dal rimorso e dai sensi di colpa decide di confessare il suo segreto all’ideatore di questa nota piattaforma, il Mark Zuckerberg di turno; ed infine una star del pop che, ormai cresciuta, vuole sottrarsi al controllo oppressivo e dannoso della sua zia-manager, emblema della violenza e dell’insensibilità  dell’industria discografica nei confronti della fragilità  e dell’emotività  degli artisti.

Storie troppo lontane da quelle a cui ci aveva abituato questa serie in passato; piccoli drammi che con la fanta-politica e la critica feroce all’iper-tecnologia non hanno nessun legame. Non c’è alcun sorriso amaro, alla fine della storia; non c’è alcuna domanda, nè ovviamente la voglia di informarsi, di leggere, di confrontarsi con gli altri.

Metropolis non è mai stata così distante e noi non possiamo fare altro che prendere atto e volgere il nostro spirito indagatore altrove.