A volte, basta un improvviso cambio di tonalità  per trasformare una semplice canzone in una hit colossale. Si tratta di un espediente vecchio come il cucco, impiegato nella stragrande maggioranza dei casi nel ritornello ““ possibilmente verso la chiusura del brano, quando i giochi sembrano essere ormai fatti. E invece no, perchè ecco arrivare, all’ennesima ripetizione del refrain, la bomba: il key change. Una sfumatura sonora quasi impercettibile ma dal notevole impatto: che sia preannunciata da un passaggio modulante o meno, conferisce al pezzo un carattere epico e maestoso, degno del miglior inno nazionale.

Davvero troppi per elencarli tutti gli artisti che, nel corso di decenni di musica pop e rock, hanno deciso di aggiungere un pizzico di enfasi ai loro singoli: i Backstreet Boys di “I Want It That Way” e i Genesis di “Invisible Touch”, il Michael Jackson di “Man In The Mirror” e la Bonnie Tyler di “Total Eclipse Of The Heart” sono solo alcuni tra gli interpreti più famosi ad aver messo alla prova la propria estensione vocale in una gara al rialzo con le melodie portanti dei loro maggiori successi. Chi ha reso questa tecnica una vera e propria arte, tuttavia, non è stato un cantante, bensì un produttore: un uomo chiamato Desmond Child.

Attivo dalla metà  degli anni settanta, è ancora oggi uno dei songwriter più autorevoli, fortunati e richiesti in circolazione: dagli Scorpions a Katy Perry, passando ancora per Cher, Dream Theater, Ricky Martin e Weezer, ha lavorato praticamente con chiunque (forse anche con troppi, considerando la disomogeneità  della lista). Negli sfavillanti “’80s le collaborazioni con Kiss, Aerosmith e soprattutto Bon Jovi gli permisero di conquistare il trono di re Mida dell’hard rock: qualsiasi album toccasse diventava oro. Nel 1989, riuscì persino a compiere un miracolo: trasformare la spazzatura in una pietra preziosa.

Prima che a qualche dirigente comunale romano venga in mente di contattare il prodigioso signor Child per togliergli le castagne dal fuoco, ci tengo a fare una precisazione: la monnezza a cui faccio riferimento è quella che diede il titolo al diciottesimo disco di Alice Cooper, “Trash”. Un ritorno in grande stile per il padre nobile dello shock rock che, dopo anni e anni di scarse soddisfazioni dal punto di vista commerciale, passò sotto i ferri del dottor Desmond Child per una sorta di lifting artistico. Less gore, more MOR: fu essenzialmente questa l’idea alla base del restyling.

Per rinvigorire una fama alquanto sbiadita, il lanciatore di coltelli di Detroit lasciò in secondo piano le antiche fascinazioni orrorifiche per abbracciare due tra le espressioni musicali più in auge dell’epoca, ovvero il glam metal e l’AOR ““ generi super-radiofonici ideali come sottofondo per un viaggio in auto, perfettamente in linea con i dettami del formato MOR (acronimo per middle of the road). Brani non troppo lunghi, strutturati in maniera elementare ma arrangiati alla perfezione; melodie iper-orecchiabili, parentesi strumentali ridotte al minimo indispensabile e, last but not least, ritornelli capaci di stamparsi in testa sin dal primissimo ascolto.

In “Trash” c’è tutto questo e molto altro di più: c’è l’enorme professionalità  di Alice Cooper, che riuscì a calarsi in un ambiente per lui quasi sconosciuto senza rinunciare alle sue caratteristiche ““ in primis l’inconfondibile timbro di voce; c’è l’estro compositivo di un Desmond Child che, al massimo della forma, mise la firma su una serie di canzoni diventate poi classici intramontabili dell’hard rock anni ottanta. Tra queste spiccano l’arcinoto singolo “Poison” (il cui video, considerato troppo osè, fu censurato da MTV) e una sfilza invidiabile di perle elettriche e glitterate (“Spark In The Dark”, “Why Trust You”, “Bed Of Nails” e “This Maniac’s In Love With You”).

Ad arricchire ulteriormente il piatto, una lista incredibile di ospiti illustrissimi: oltre alle comparsate dietro al microfono di Jon Bon Jovi nella title track, di Steven Tyler nella ballatona “Only My Heart Talkin'” e di Kip Winger nell’esplosiva “I’m Your Gun”, sono presenti le chitarre di Joe Perry in “House Of Fire” (frutto di una collaborazione tra Cooper, Child e Joan Jett), di Steve Lukather e Richie Sambora nella splendida “Hell Is Living Without You” e di Kane Roberts, il John Rambo della sei corde, in “Bed Of Nails”. Quanta abbondanza, caro Alice Cooper! Sono passati trent’anni, e noi ancora non siamo degni (“Fusi di testa” docet).

Alice Cooper ““ “Trash”
Data di pubblicazione: 25  luglio 1989
Tracce:  10
Lunghezza: 40:11
Etichetta:  Epic
Produttore: Desmond Child

Tracklist:
1. Poison
2. Spark In The Dark
3. House Of Fire
4. Why Trust You
5. Only My Heart Talkin’
6. Bed Of Nails
7. This Maniac’s In Love With You
8. Trash
9. Hell Is Living Without You
10. I’m Your Gun