“All Mirrors”, il nuovo album di Angel Olsen, esce a distanza di tre anni da “My Woman”, capolavoro che l’ha consacrata al grande pubblico. Firmato Jagjaguwar, il quarto disco della cantante è un’opera coraggiosa ed eccentrica, che mostra quanto l’artista non abbia paura di reinventarsi continuamente.

“Lark” è il brano d’apertura del disco, un mormorio dolorante che scoppia all’improvviso nell’oscurità  più totale. Un lungo uragano di violini e voce che porta, assieme a sè, tutta la sofisticata orchestrazione che si può celare dietro ad un risentimento amoroso. In alcuni punti quasi gridato dalla cantante, il risultato principale ottenuto dalla ballad è quello di trasportare gli ascoltatori in un girotondo giustamente commiserativo ed allucinato. Un gioco vecchio come il mondo al quale, prima o poi, partecipano proprio tutti. Un saliscendi straziante e continuo, “Lark” introduce magnificamente l’album con un arrangiamento al limite della dissonanza, che ci fa vivere costantemente sul vertice della tensione mentre tentiamo di tenerci stretti i cocci del nostro cuore infranto.

“All Mirrors”, title track dell’album, è una canzone ipnotica che sorge dalla nebbia rarefatta degli anni ’80. Mossa da un alieno slancio rivendicatore Olsen ripete “at least at times it knew me“, mentre i violini le tendono un’imboscata per farla ritornare nel fumo denso dal quale è emersa. Un pezzo molto teatrale, un vero e proprio gioco di specchi la cui controparte visuale si rivela non essere da meno grazie al bel lavoro della regista ed amica Ashley Connor. “Too Easy”, invece, cambia il registro e strizza l’occhio al versante zuccheroso degli anni ’80, stemperando inaspettatamente la tensione drammatica accumulata dalle due precedenti tracce.

Segue “New Love Cassette”, che vede la cantante tornare all’uso di una voce più doppia e grave e che apre tematicamente la via al brano successivo. “Spring” è una lettera aperta a tutte le cose che crediamo di sapere ad un certo punto della nostra vita e che, invece, non sappiamo affatto. Olsen intreccia frasi come “remember when we said we’ll never have children” e c’infligge la stoccata mortale cantandoci “wow, time has revealed how little we know us” e “I’ve been too busy / I should have noticed“, implorando una tegua sul finire “so give me some heaven / just for a while“. Passi percorsi e cambiamenti sopraggiunti in una relazione che non fa più parte di un quotidiano che c’è stato, e che è stato, per tanto tempo, probabilmente, il perno centrale di una vita.

“What It Is” è forse l’unica nota stonata dell’album, uno strano spartiacque dal testo fin troppo semplice. Un brano che non convince e che non riesce a mantenere il livello delle altre canzoni che compongono “All Mirrors”. “Impasse”, notturna e trascinata, sopraggiunge per raddrizzare la spina dorsale del disco, che torna a girare attorno al logico binomio oscurità  e cuore infranto.

“Tonight” è una confessione magnetica quasi sussurrata all’orecchio. Un’esecuzione dalla voce commossa che infrange qualsiasi barriera presente tra la cantante e l’ascoltatore. Il dolore trabocca dal petto e sfocia nelle parole cantate dall’artista, delle quali siamo testimoni diretti e partecipi. “Summer” ha, invece, un ritmo più leggero e rompe nettamente con il sentimento d’intimitá creato dal pezzo precedente.

“Endgame” è una canzone da luna piena hollywoodiana. Retró ed atmosferica, cola dolce come il miele, sfruttando al massimo il potenziale dell’orchestra e del coro femminile che sublima il sound di Olsen. “Chance” chiude l’album in bellezza con una nota d’epicità  trionfale.

“All Mirrors” è, probabilmente, un disco d’autoanalisi, una terapia post rottura necessaria e magnifica. Angel Olsen si scrolla di dosso le ceneri di un amore finito e realizza che non è stato uno sconosciuto a tener testa a tutta quell’oscurità , è stato proprio il suo riflesso che appare nello specchio.