Ammetto con un filo di tristezza di essere troppo vecchio per comprendere appieno i motivi del clamoroso successo delle Babymetal, due giovanissime ragazze di Tokyo che sfoggiano un look da scolarette goth e vanno in giro dicendo di essere le messaggere di una qualche divinità  shintoista con la faccia da volpe. Sta di fatto che si tratta di un fenomeno da non prendere sottogamba, considerando i numeri da capogiro che registrano tra massicce tournèe internazionali e dischi vendutissimi in ogni dove.

Il loro terzo album si intitola “Metal Galaxy” e rappresenta una sorta di viaggio nei meandri di quel microcosmo musicale noto come kawaii metal. Un genere particolare e assai difficile da descrivere: immaginatevi un crossover tra sigle di vecchi anime, J-pop, Hello Kitty e un heavy metal tendente al power, assai pomposo e stereotipato. Da brividi, vero? E pensare che c’è chi, in estasi di fronte a un tale caos, ha tirato in ballo la geniale follia di Frank Zappa ““ non scherzo, l’ho letto su qualche rivista.

A me personalmente fa pensare all’opera di un Devin Townsend versione cosplayer che, in overdose da dolciumi e carinerie, esce fuori di senno e manda tutto in vacca. Un casino totale, in poche parole. Ma è un casino orecchiabilissimo, sovraprodotto e confezionato appositamente per raggiungere i vertici delle classifiche di mezzo mondo. I quattordici brani in lista non sono nient’altro che riletture edulcorate di sonorità  e stili pescati qua e là , tra mode del presente e del passato.

L’abbandono di Yuimetal non sembra aver intristito troppo le scoppiettanti Su-metal e Moametal: tra le pulsazioni danzerecce di “Da Da Dance”, lo shredding selvaggio di “Brand New Day” (ospiti di lusso, Tim Henson e Scott LePage dei Polyphia) e il J-pop ultra-catchy di “Elevator Girl”, non si fanno mancare proprio nulla.

In questo marasma multietnico di chitarre elettriche e melodie smielate c’è spazio per i profumi orientali della pacchianissima “Shanti Shanti Shanti”, la frenesia latino-americana di “Pa Pa Ya!!” e le percussioni tribali di “In The Name Of”, sterile omaggio ai Sepultura di “Roots”. I canti pirateschi di “Oh! Majinai” vengono intonati in compagnia di un maestro di sobrietà  quale Joakim Brodèn (frontman dei Sabaton). La potentissima voce gutturale di Alissa White-Gluz degli Arch Enemy fa capolino in “Distortion”, un intruglio imbevibile a base di industrial metal, tastierone anni ’80 e musica da videogioco.

Il riffone nu metal che apre l’esplosiva “Kagerou” e i virtuosismi che trasformano “Arkadia” in un bel pezzo super-epico aggiungono poco o nulla a un piatto decisamente troppo speziato. Divertente? Assolutamente sì, dall’inizio alla fine. Se avete superato i quindici anni di età , però, statene alla larga.

Credit Foto: rawpic [CC BY-SA 4.0], via Wikimedia Commons