Ritrovarsi e riconnettersi su lunghezze d’onda mai perse. Questo è quello che accade a Joe Cassidy e Gary McKendry. Sono lontani i primi anni ’90 in cui Butterfly Child e Papa Sprain muovevano i loro primi passi con la H.ark!, lontani nel tempo ma non certo nello spirito, visto che tutt’oggi quel dream-pop e quelle magie tanto ovattate quanto elettroniche sono più che mai attuali.
Le strade dei due artisti si separarono, presero indirizzi diversi. Cassidy riuscì a intraprendere la carriera di musicista e poi si trasferì in America, Gary non riuscì a pubblicare l’album d’esordio e il suo avant (post) rock non riuscì ad andare oltre a un paio di EP (restando però ben impresso nella memoria di chi cerca le basi di un certo tipo di suono).

Joe e Gary si ritrovano nel 2016 e decidono di fare musica insieme, troppo forte quel legame che li unisce: i chilometri di distanza, la vita, le gioie e i dolori hanno attorcigliato il filo, ma non l’hanno spezzato. In realtà  già  negli anni ’80 i due, molto giovani, suonavano insieme, ma era un divertimento, un modo per superare con la musica le difficoltà  del quotidiano, ora invece abbiamo qualcosa che merita un nome, My Bus, e che arriva all’album di debutto. I due artisti si sono trovati a Belfast, ma poi anche da lontano hanno continuato a gestire al meglio il progetto che ora, con “Our Life In The Desert” trova il suo sbocco.

Due personalità  diverse, due modi d’intendere l’approccio ai suoni. Più dissonante quello di Gary, più vicino alla melodia pura e cristallina Joe. Vicini però nella capacità  di dare forma e sostanza ai sogni, perchè sia nei Butterfly Child sia nei Papa Sprain è proprio l’aspetto onirico che spesso ricorre e viene rappresentato. Questo è proprio quello che ritroviamo anche nel progetto My Bus. Se dovessimo usare dei riferimenti potremmo citare tanto atmosfere ambient quanto le situazioni astratte che si materializzano in certe uscite dei Radiohead. Un disco pop, certo, ma sensibile e affascinante, tanto etereo (“Weekend Hearts”) quanto accattivante (“Elvis and Me”), elettronico a basse pulsazioni ma non per questo incapace d’infondere sensazioni di piacere e calore così come sguardi più cupi (“The Sun Will Come”). Gli estremi, ancora, sempre, che si cercano e si fondono e creano una magia suggestiva che ci cattura mentre onde languide ci cullano (“And Time”) e, a tratti, piccoli frammenti più agitati (“Ballerina”) ci fanno muovere più velocemente le pupille, ma senza che la paura ci prenda realmente.

La voce di Joe Cassidy è predominante, sempre attenta a dare la linea melodica affascinante: una magica guida nel mondo sognante di un disco che ci piace tantissimo e mostra realmente di essere senza tempo e senza confini.


Photo by: Paul Elledge