Preambolo:
Ogni volta che ho indossato i panni di recensore, ho sempre pensato che la maniera migliore per raccontare la musica agli altri fosse quella di porsi come conduttori rispetto all’energia emanata dai dischi, che sono innanzitutto opera umana (e quindi umaniste), prima che output composti da segnali percepibili da un ricevente, prima che prodotti dell’industria culturale da inserire storicamente in un flusso di evoluzioni di forme e in una cornice filologica.
Insomma, per comprendere un’opera musicale serve una connessione, riconoscere o costruire un canale di scambio e di interlocuzione, per far filtrare una “traduzione” meta-testuale, che si riferisca sia ad un qui ed ora che a una dimensione fuori dal tempo.

(La recensione)
Nello stesso modo Paolo Benvegnù è sempre più un conduttore, attraverso il quale scorre tra mistero e rivelazione il senso di una storia umana universale e personale. Talmente ai confini di una ricerca sulla parola e di come allestire una forma musicale che ne esalti la densità  semantica, filosofica e poetica, da apparire spesso distante anche dagli autori più sensibili della scena italiana. E dunque, ancor meno di ieri, a parte qualche caso particolare, non ne è mai scaturita un’attenzione mediatica di rilievo. Benvegnù e i suoi musicisti rimangono un progetto artistico di culto, che comunque da anni plasma opere di cristallino valore.
E come cantautore, a nostro parere, Paolo rimane probabilmente il protagonista più profondo e sfaccettato della scena italiana del nuovo secolo.

Conclusa la densa trilogia della lettera H (“Hermann”, “Earth Hotel”, “H3+”), l’autore milanese assembla quindi la sua raccolta di canzoni probabilmente più romantica e malinconica, la più scura ma anche la più colma di accecanti raggi di luce, a trafiggere in alcuni frangenti una fitta coltre di tramonto. Le trame sonore sono in parte leggermente meno stratificate e più ariose del solito, mentre le parole cercano a volte di liberarsi da certi voli tortuosi che comunque avevano ad esempio elevato l’eccellente album precedente, per cercare sensazioni più tangibili, senza rinunciare a ricamare le suggestioni dello spessore vertiginoso a cui ci ha abituato il Nostro sin dall’inizio della sua carriera solista, osservando da prospettive impensabili il fragile universo delle anime e l’indifferente mondo delle cose.

Questo nuovo lavoro riesce poi ad aggiungere nuova linfa a tematiche sempre più care a Paolo: lo stupore, la perdita, la ricerca dell’innocenza, così come l’osservazione di silenzi che nulla dicono e tutto dicono, e dunque il vuoto sempre più come generatore del tutto o meta del tutto.

Brani come “La nostra vita innocente” (che va subito ad ergersi come manifesto dell’album), “Non torniamo più”, “Infinitoalessandrofiori” si ergono su strutture fievoli eppure grumose, pregne di quel romanticismo di cui vi accennavamo nella recensione. “Pietre”, singolo dell’album, si muove su fraseggi ed aperture quasi radioheaddiani (ma consideratelo solo un pigro accostamento giornalistico): è un pezzo geometricamente elegante che restituisce un impietoso mondo squadrato, descritto con fredda amarezza (il videoclip relativo in questo senso è perfetto), un singolo non commerciale ma dal respiro diremmo internazionale.
Nella tracklist troviamo anche la trilogia dell’Infinito (dall’ordine volutamente sbagliato), con “Infinito 1” più quadrata nella struttura e quasi feroce nell’invettiva “esistenziale”, anzi quasi sociale, contenuta nelle strofe, mentre “Infinito 3” scivola su un fluttuante letto di dolci arpeggi e synth siderali per svelare una poesia pregna di fatalismo scuro e amorevolezza notturna, e l’inaspettato intermezzo quasi ambientale “Infinito 2” che si impernia su un ipnotico arpeggio in delay accompagnato da stordite oscillazioni dreamy.

Dell’odio e dell’innocenza sin dal titolo va ad inquadrarsi perfettamente nello spirito della contemporaneità , offrendo alcune tra le pagine più poetiche della carriera di Benvegnù.