La pandemia, i disastri climatici, la disoccupazione, il razzismo, l’estrema destra e adesso pure i Mà¥neskin“…quante disgrazie stanno flagellando il mondo! Il peso della disperazione grava sulle nostre povere spalle. Sono ormai pochissimi gli inguaribili ottimisti che, pur di non soccombere allo sconforto, giurano di intravedere barlumi di ripresa all’orizzonte. Da buon profeta di sventura, mi sento in obbligo di consigliare loro di mollare la presa e abituarsi a questo sfacelo che i più coraggiosi si ostinano a chiamare nuova normalità .

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate: l’apocalisse è alle porte. Ed era ora, perdio! Finalmente posso rispolverare la mia vecchia copia di “Master Of Reality” e gustarmi questo capolavoro per quel che è: una splendida ma inquietante colonna sonora per tempi maledetti, in cui ogni cosa sembra muoversi seguendo una scia fatta di morte, terrore, ansia e distruzione. A distanza di mezzo secolo dalla pubblicazione, il terzo album dei Black Sabbath resta un monumentale esempio di cupa pesantezza. Un disco che, se confrontato con i suoi altrettanto egregi predecessori, risulta essere molto più elaborato, moderno ed heavy.

Il motivo per cui tanti critici lo considerano il vero progenitore di almeno tre popolarissimi sottogeneri del metal ““ il doom, lo sludge e lo stoner ““ è legato al fatto che, per le registrazioni, il chitarrista mancino Tony Iommi decise di abbassare di un tono e mezzo l’accordatura del suo strumento. Riducendo la tensione sul manico, l’indiscusso genio dei riff ottenne due preziosi risultati: diede un freno al dolore costante che sentiva ogni volta che suonava all’anulare e al medio della mano destra, dita rimaste prive di falangi a causa di un brutto incidente occorsogli nel periodo in cui fu operaio in una fabbrica di lamiere, e aggiunse ulteriore “cattiveria” alla musica dei Black Sabbath.

Il sound si fece più oscuro, denso e compatto, trasformandosi in un vero e proprio monolite di metallo rovente dalle mille screziature nello stile e nella forma. Sono le piccole ma percettibili finezze, frutto delle esperienze accumulate con l’esordio del 1970 e “Paranoid”, a rendere tanto avvincente l’ascolto di “Master Of Reality”. I frequenti e repentini cambi di tempo; le sovraincisioni di batteria e percussioni da parte di un Bill Ward in stato di grazia; i primi, timidissimi esperimenti con i synth; le brevi ma estremamente suggestive parentesi folk nella medievaleggiante “Embryo” e nell’acustica “Orchid”: tutti elementi sapientemente distribuiti al fine di “ingentilire” il lavoro di pura malvagità  condotto dai Black Sabbath.

A dettare le atmosfere dell’album, generalmente fosche e opprimenti, sono le chitarre di Iommi e il basso granitico ma guizzante di Geezer Butler. Sulle loro scomposte “costruzioni” sonore, a tratti talmente lontane dai convenzionali schemi pop/rock da avere un gusto quasi jammistico, si staglia la voce di un Ozzy Osbourne che, più che cantare, ipnotizza con le sue melodie salmodianti. Il timbro caratteristico del frontman si sposa alla perfezione con la vena apocalittica delle otto tracce di “Master Of Reality”, le cui note plumbee pesano come dei macigni che affondano in un terreno putrido e paludoso.

Un colpo di tosse in loop e subito la ruvida e lentissima “Sweet Leaf” prova a trascinarci nelle viscere dell’inferno. Ma non sono zaffate di zolfo quelle che impregnano l’aria, bensì è l’odore dolciastro e intenso della cannabis. A questa storica canzone d’amore dedicata alla marijuana fanno seguito “After Forever”, un criptico invito alla fede in cui Ozzy si spinge a chiederci se ci piacerebbe vedere il papa impiccato (Would you like to see the Pope/On the end of a rope?/Do you think he’s a fool?) e “Children Of The Grave”, un’esaltante galoppata metal che serve ai Black Sabbath per spronare i giovani a insorgere contro i potenti della Terra, al fine di fermare l’incombente guerra nucleare.

Ma è un viaggio senza ritorno: l’uomo, con le sue decisioni scellerate, ha imboccato la via della dannazione eterna, divenendo così suddito di quel “Lord Of This World” che altri non è che Satana. Una tremenda condanna da scontare in isolamento, ai margini di una società  che tutto schiaccia e distrugge. Peccato non ci sia alcun sollievo nella dolcezza di “Solitude”, forse tra le ballad più belle di tutto il rock anni ’70; dal testo, infatti, affiorano immagini di tristezza infinita. Mi limito a citare la prima strofa: My name it means nothing, my fortune is less/My future is shrouded in dark wilderness/Sunshine is far away, clouds linger on/Everything I possessed, now, they are gone.

Arrivati a questo punto, la disperazione si taglia con il coltello. Può andare peggio di così? La risposta, naturalmente, è sì. Il riff portentoso che fa da introduzione a “Into The Void” scaraventa l’ascoltatore in un mondo in cui tutto è miseria e dolore. L’inquinamento uccide l’aria, la terra e il mare (Pollution kills the air, the land and sea), mentre infuriano battaglie sanguinose motivate unicamente da odio e paura. Per farvela breve: una catastrofe persino peggiore di quella che stiamo attraversando oggi.

Nel 1971, facendo bella mostra di una smodata passione per la fantascienza, il quartetto di Birmingham provò ad azzardare una proposta per scongiurare il “suicidio finale”: salire a bordo di un razzo spaziale e partire alla volta di un pianeta libero e pulito, lontano anni luce dall’orrore terrestre. Richard Branson e Jeff Bezos, da buoni supermiliardari, ci hanno già  fatto un pensierino.

E quale futuro per noi comuni mortali, invece? Dobbiamo prepararci a uno spaventoso destino fatto di pestilenze, alluvioni e povertà ? Precipiteremo nel vuoto o usciremo a riveder le stelle? Lasciamoci con quel briciolo di speranza che emerge dalle battute finali di “Into The Void”: Leave the earth to Satan and his slaves/Leave them to their future in their grave/Make a home where love is there to stay/Peace and happiness in every day. Una casa di amore, pace e felicità ; sembra impossibile crederlo, ma era essenzialmente questo il sogno dei diabolici Black Sabbath.

Data di pubblicazione: 21 luglio 1971
Tracce: 8
Lunghezza: 34:29
Etichetta: Vertigo
Produttore: Rodger Bain

Tracklist:
1. Sweet Leaf
2. After Forever
3. Embryo
4. Children Of The Grave
5. Orchid
6. Lord Of This World
7. Solitude
8. Into The Void